48 Poi monta il volatore, e in aria s’alza per giunger di quel monte in su la cima, che non lontan con la superna balza dal cerchio de la luna esser si stima. Tanto è il desir che di veder lo ‘ncalza, ch’al cielo aspira, e la terra non stima. De l’aria più e più sempre guadagna, tanto ch’al giogo va de la montagna.
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49 Zafir, rubini, oro, topazi e perle, e diamanti e crisoliti e iacinti potriano i fiori assimigliar, che per le liete piaggie v’avea l’aura dipinti: sì verdi l’erbe, che possendo averle qua giù, ne fôran gli smeraldi vinti; né men belle degli arbori le frondi, e di frutti e di fior sempre fecondi.
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50 Cantan fra i rami gli augelletti vaghi azzurri e bianchi e verdi e rossi e gialli. Murmuranti ruscelli e cheti laghi di limpidezza vincono i cristalli. Una dolce aura che ti par che vaghi a un modo sempre e dal suo stil non falli, facea sì l’aria tremolar d’intorno, che non potea noiar calor del giorno:
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51 e quella ai fiori, ai pomi e alla verzura gli odor diversi depredando giva, e di tutti faceva una mistura che di soavità l’alma notriva. Surgea un palazzo in mezzo alla pianura, ch’acceso esser parea di fiamma viva: tanto splendore intorno e tanto lume raggiava, fuor d’ogni mortal costume.
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52 Astolfo il suo destrier verso il palagio che più di trenta miglia intorno aggira, a passo lento fa muovere ad agio, e quinci e quindi il bel paese ammira; e giudica, appo quel, brutto e malvagio, e che sia al ciel ed a natura in ira questo ch’abitian noi fetido mondo: tanto è soave quel, chiaro e giocondo.
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53 Come egli è presso al luminoso tetto, attonito riman di maraviglia; che tutto d’una gemma è ‘l muro schietto, più che carbonchio lucida e vermiglia. O stupenda opra, o dedalo architetto! Qual fabrica tra noi le rassimiglia? Taccia qualunque le mirabil sette moli del mondo in tanta gloria mette.
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54 Nel lucente vestibulo di quella felice casa un vecchio al duca occorre, che ‘l manto ha rosso, e bianca la gonnella, che l’un può al latte, e l’altro al minio opporre. I crini ha bianchi, e bianca la mascella di folta barba ch’al petto discorre; ed è sì venerabile nel viso, ch’un degli eletti par del paradiso.
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55 Costui con lieta faccia al paladino, che riverente era d’arcion disceso, disse: - O baron, che per voler divino sei nel terrestre paradiso asceso; come che né la causa del camino, né il fin del tuo desir da te sia inteso; pur credi che non senza alto misterio venuto sei da l’artico emisperio.
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56 Per imparar come soccorrer déi Carlo, e la santa fé tor di periglio venuto meco a consigliar ti sei per così lunga via, senza consiglio. Né a tuo saper, né a tua virtù vorrei ch’esser qui giunto attribuissi, o figlio; che né il tuo corno, né il cavallo alato ti valea, se da Dio non t’era dato.
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57 Ragionerem più ad agio insieme poi, e ti dirò come a procedere hai: ma prima vienti a ricrear con noi; che ‘l digiun lungo de’ noiarti ormai. - Continuando il vecchio i detti suoi, fece meravigliare il duca assai, quando scoprendo il nome suo, gli disse esser colui che l’evangelio scrisse:
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58 quel tanto al Redentor caro Giovanni, per cui il sermone tra i fratelli uscìo, che non dovea per morte finir gli anni; sì che fu causa che ‘l figliuol di Dio a Pietro disse: - Perché pur t’affanni, s’io vo’ che così aspetti il venir mio? - Ben che non disse: egli non de’ morire, si vede pur che così volse dire.
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59 Quivi fu assunto, e trovò compagnia, che prima Enoch, il patriarca, v’era; eravi insieme il gran profeta Elia, che non han vista ancor l’ultima sera; e fuor de l’aria pestilente e ria si goderan l’eterna primavera, fin che dian segno l’angeliche tube, che torni Cristo in su la bianca nube.
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60 Con accoglienza grata il cavalliero fu dai santi alloggiato in una stanza; fu provisto in un’altra al suo destriero di buona biada, che gli fu a bastanza. De’ frutti a lui del paradiso diero, di tal sapor, ch’a suo giudicio, sanza scusa non sono i duo primi parenti, se per quei fur sì poco ubbidienti.
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61 Poi ch’a natura il duca aventuroso satisfece di quel che se le debbe, come col cibo, così col riposo, che tutti e tutti i commodi quivi ebbe; lasciando già l’Aurora il vecchio sposo, ch’ancor per lunga età mai non l’increbbe, si vide incontra ne l’uscir del letto il discipul da Dio tanto diletto;
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62 che lo prese per mano, e seco scorse di molte cose di silenzio degne: e poi disse: - Figliuol, tu non sai forse che in Francia accada, ancor che tu ne vegne. Sappi che ‘l vostro Orlando, perché torse dal camin dritto le commesse insegne, è punito da Dio, che più s’accende contra chi egli ama più, quando s’offende.
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63 Il vostro Orlando, a cui nascendo diede somma possanza Dio con sommo ardire, e fuor de l’uman uso gli concede che ferro alcun non lo può mai ferire; perché a difesa di sua santa fede così voluto l’ha costituire, come Sansone incontra a’ Filistei costituì a difesa degli Ebrei:
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64 renduto ha il vostro Orlando al suo Signore di tanti benefici iniquo merto; che quanto aver più lo dovea in favore, n’è stato il fedel popul più deserto. Sì accecato l’avea l’incesto amore d’una pagana, ch’avea già sofferto due volte e più venire empio e crudele, per dar la morte al suo cugin fedele.
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65 E Dio per questo fa ch’egli va folle, e mostra nudo il ventre, il petto e il fianco; e l’intelletto sì gli offusca e tolle, che non può altrui conoscere, e sé manco. A questa guisa si legge che volle Nabuccodonosor Dio punir anco, che sette anni il mandò il furor pieno, sì che, qual bue, pasceva l’erba e il fieno.
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66 Ma perch’assai minor del paladino, che di Nabucco, è stato pur l’eccesso, sol di tre mesi dal voler divino a purgar questo error termine è messo. Né ad altro effetto per tanto camino salir qua su t’ha il Redentor concesso, se non perché da noi modo tu apprenda, come ad Orlando il suo senno si renda.
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67 Gli è ver che ti bisogna altro viaggio far meco, e tutta abbandonar la terra. Nel cerchio de la luna a menar t’aggio, che dei pianeti a noi più prossima erra, perché la medicina che può saggio rendere Orlando, là dentro si serra. Come la luna questa notte sia sopra noi giunta, ci porremo in via. -
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68 Di questo e d’altre cose fu diffuso il parlar de l’apostolo quel giorno. Ma poi che ‘l sol s’ebbe nel mar rinchiuso, e sopra lor levò la luna il corno, un carro apparecchiòsi, ch’era ad uso d’andar scorrendo per quei cieli intorno: quel già ne le montagne di Giudea da’ mortali occhi Elia levato avea.
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69 Quattro destrier via più che fiamma rossi al giogo il santo evangelista aggiunse; e poi che con Astolfo rassettossi, e prese il freno, inverso il ciel li punse. Ruotando il carro, per l’aria levossi, e tosto in mezzo il fuoco eterno giunse; che ‘l vecchio fe’ miracolosamente, che, mentre lo passar, non era ardente.
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70 Tutta la sfera varcano del fuoco, ed indi vanno al regno de la luna. Veggon per la più parte esser quel loco come un acciar che non ha macchia alcuna; e lo trovano uguale, o minor poco di ciò ch’in questo globo si raguna, in questo ultimo globo de la terra, mettendo il mar che la circonda e serra.
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71 Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia: che quel paese appresso era sì grande, il quale a un picciol tondo rassimiglia a noi che lo miriam da queste bande; e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia, s’indi la terra e ‘l mar ch’intorno spande, discerner vuol; che non avendo luce, l’imagin lor poco alta si conduce.
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72 Altri fiumi, altri laghi, altre campagne sono là su, che non son qui tra noi; altri piani, altre valli, altre montagne, c’han le cittadi, hanno i castelli suoi, con case de le quai mai le più magne non vide il paladin prima né poi: e vi sono ample e solitarie selve, ove le ninfe ognor cacciano belve.
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73 Non stette il duca a ricercar il tutto; che là non era asceso a quello effetto. Da l’apostolo santo fu condutto in un vallon fra due montagne istretto, ove mirabilmente era ridutto ciò che si perde o per nostro diffetto, o per colpa di tempo o di Fortuna: ciò che si perde qui, là si raguna.
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74 Non pur di regni o di ricchezze parlo, in che la ruota instabile lavora; ma di quel ch’in poter di tor, di darlo non ha Fortuna, intender voglio ancora. Molta fama è là su, che, come tarlo, il tempo al lungo andar qua giù divora: là su infiniti prieghi e voti stanno, che da noi peccatori a Dio si fanno.
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75 Le lacrime e i sospiri degli amanti, l’inutil tempo che si perde a giuoco, e l’ozio lungo d’uomini ignoranti, vani disegni che non han mai loco, i vani desideri sono tanti, che la più parte ingombran di quel loco: ciò che in somma qua giù perdesti mai, là su salendo ritrovar potrai.
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76 Passando il paladin per quelle biche, or di questo or di quel chiede alla guida. Vide un monte di tumide vesiche, che dentro parea aver tumulti e grida; e seppe ch’eran le corone antiche e degli Assiri e de la terra lida, e de’ Persi e de’ Greci, che già furo incliti, ed or n’è quasi il nome oscuro.
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77 Ami d’oro e d’argento appresso vede in una massa, ch’erano quei doni che si fan con speranza di mercede ai re, agli avari principi, ai patroni. Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede, ed ode che son tutte adulazioni. Di cicale scoppiate imagine hanno versi ch’in laude dei signor si fanno.
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78 Di nodi d’oro e di gemmati ceppi vede c’han forma i mal seguiti amori. V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi, l’autorità ch’ai suoi danno i signori. I mantici ch’intorno han pieni i greppi, sono i fumi dei principi e i favori che danno un tempo ai ganimedi suoi, che se ne van col fior degli anni poi.
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79 Ruine di cittadi e di castella stavan con gran tesor quivi sozzopra. Domanda, e sa che son trattati, e quella congiura che sì mal par che si cuopra. Vide serpi con faccia di donzella, di monetieri e di ladroni l’opra: poi vide bocce rotte di più sorti, ch’era il servir de le misere corti.
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80 Di versate minestre una gran massa vede, e domanda al suo dottor ch’importe. - L’elemosina è (dice) che si lassa alcun, che fatta sia dopo la morte. - Di vari fiori ad un gran monte passa, ch’ebbe già buono odore, or putia forte. Questo era il dono (se però dir lece) che Costantino al buon Silvestro fece.
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81 Vide gran copia di panie con visco, ch’erano, o donne, le bellezze vostre. Lungo sarà, se tutte in verso ordisco le cose che gli fur quivi dimostre; che dopo mille e mille io non finisco, e vi son tutte l’occurrenze nostre: sol la pazzia non v’è poca né assai; che sta qua giù, né se ne parte mai.
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82 Quivi ad alcuni giorni e fatti sui, ch’egli già avea perduti, si converse; che se non era interprete con lui, non discernea le forme lor diverse. Poi giunse a quel che par sì averlo a nui, che mai per esso a Dio voti non ferse; io dico il senno: e n’era quivi un monte, solo assai più che l’altre cose conte.
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83 Era come un liquor suttile e molle, atto a esalar, se non si tien ben chiuso; e si vedea raccolto in varie ampolle, qual più, qual men capace, atte a quell’uso. Quella è maggior di tutte, in che del folle signor d’Anglante era il gran senno infuso; e fu da l’altre conosciuta, quando avea scritto di fuor: Senno d’Orlando.
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84 E così tutte l’altre avean scritto anco il nome di color di chi fu il senno. Del suo gran parte vide il duca franco; ma molto più maravigliar lo fenno molti ch’egli credea che dramma manco non dovessero averne, e quivi dénno chiara notizia che ne tenean poco; che molta quantità n’era in quel loco.
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85 Altri in amar lo perde, altri in onori, altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze; altri ne le speranze de’ signori, altri dietro alle magiche sciocchezze; altri in gemme, altri in opre di pittori, ed altri in altro che più d’altro aprezze. Di sofisti e d’astrologhi raccolto, e di poeti ancor ve n’era molto.
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86 Astolfo tolse il suo; che gliel concesse lo scrittor de l’oscura Apocalisse. L’ampolla in ch’era al naso sol si messe, e par che quello al luogo suo ne gisse: e che Turpin da indi in qua confesse ch’Astolfo lungo tempo saggio visse; ma ch’uno error che fece poi, fu quello ch’un’altra volta gli levò il cervello.
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87 La più capace e piena ampolla, ov’era il senno che solea far savio il conte, Astolfo tolle; e non è sì leggiera, come stimò, con l’altre essendo a monte. Prima che ‘l paladin da quella sfera piena di luce alle più basse smonte, menato fu da l’apostolo santo in un palagio ov’era un fiume a canto;
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88 ch’ogni sua stanza avea piena di velli di lin, di seta, di coton, di lana, tinti in vari colori e brutti e belli. Nel primo chiostro una femina cana fila a un aspo traea da tutti quelli, come veggiàn l’estate la villana traer dai bachi le bagnate spoglie, quando la nuova seta si raccoglie.
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89 V’è chi, finito un vello, rimettendo ne viene un altro, e chi ne porta altronde: un’altra de le filze va scegliendo il bel dal brutto che quella confonde. - Che lavor si fa qui, ch’io non l’intendo? - dice a Giovanni Astolfo; e quel risponde: - Le vecchie son le Parche, che con tali stami filano vite a voi mortali.
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90 Quanto dura un de’ velli, tanto dura l’umana vita, e non di più un momento. Qui tien l’occhio e la Morte e la Natura, per saper l’ora ch’un debba esser spento. Sceglier le belle fila ha l’altra cura, perché si tesson poi per ornamento del paradiso; e dei più brutti stami si fan per li dannati aspri legami. -
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91 Di tutti i velli ch’erano già messi in aspo, e scelti a farne altro lavoro, erano in brevi piastre i nomi impressi, altri di ferro, altri d’argento o d’oro: e poi fatti n’avean cumuli spessi, de’ quali, senza mai farvi ristoro, portarne via non si vedea mai stanco un vecchio, e ritornar sempre per anco.
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92 Era quel vecchio sì espedito e snello, che per correr parea che fosse nato; e da quel monte il lembo del mantello portava pien del nome altrui segnato. Ove n’andava, e perché facea quello, ne l’altro canto vi sarà narrato, se d’averne piacer segno farete con quella grata udienza che solete.
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CANTO TRENTACINQUESIMO
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1 Chi salirà per me, madonna, in cielo a riportarne il mio perduto ingegno? che, poi ch’uscì da’ bei vostri occhi il telo che ‘l cor mi fisse, ognor perdendo vegno. Né di tanta iattura mi querelo, pur che non cresca, ma stia a questo segno; ch’io dubito, se più si va scemando, di venir tal, qual ho descritto Orlando.
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2 Per riaver l’ingegno mio m’è aviso che non bisogna che per l’aria io poggi nel cerchio de la luna o in paradiso; che ‘l mio non credo che tanto alto alloggi. Ne’ bei vostri occhi e nel sereno viso, nel sen d’avorio e alabastrini poggi se ne va errando; ed io con queste labbia lo corrò, se vi par ch’io lo riabbia.
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3 Per gli ampli tetti andava il paladino tutte mirando le future vite, poi ch’ebbe visto sul fatal molino volgersi quelle ch’erano già ordite: e scorse un vello che più che d’or fino splender parea; né sarian gemme trite, s’in filo si tirassero con arte, da comparargli alla millesma parte.
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