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Monteverdi, “Lamento della ninfa”

Claudio MONTEVERDI (1567-1643)

Lamento della ninfa
dall’Ottavo libro. Madrigali guerrieri e amorosi, n. 18 (1638)

testo di Ottavio Rinuccini (1614)

[partitura]

 

Parte I (TTB)

Non havea Febo ancora
recato al mondo il dì
ch’una donzella fuora
del proprio albergo uscì.

Sul pallidetto volto
scorgease il suo dolor,
spesso gli venia sciolto
un gran sospir dal cor.

Sì calpestando fiori,
errava hor qua, hor là,
i suoi perduti amori
così piangendo va:

Parte II (STTB)

“Amor,” dicea, il ciel
mirando il piè fermò
“dove, dov’è la fé
che ‘l traditor giurò?

Fa che ritorni il mio
amor com’ei pur fu,
o tu m’ancidi, ch’io
non mi tormenti più.”

Miserella, ah più no,
tanto gel soffrir non può.

“Non vo’ più che i sospiri
se non lontan da me,
no, no, che i suoi martiri
più non dirammi, affé!

Perché di lui mi struggo
tutt’orgoglioso sta,
che sì, che sì se ‘l fuggo
ancor mi pregherà?

Se ciglio ha più sereno
colei che ‘l mio non è,
già non rinchiude in seno
Amor si bella fé.

Né mai si dolci baci
da quella bocca havrai,
né più soavi; ah, taci,
taci, che troppo il sai.”

Parte III (TTB)

Sì tra sdegnosi pianti
spargea le voci al ciel;
così ne’ cori amanti
mesce Amor fiamma e gel.

Non havea Febo ancora
recato al mondo il dì
ch’una donzella fuora
del proprio albergo uscì.

Sul pallidetto volto
scorgease il suo dolor,
spesso gli venia sciolto
un gran sospir dal cor.

Sì calpestando fiori,
errava hor qua, hor là,
i suoi perduti amori
così piangendo va:

“Amor,” dicea, il ciel
mirando il piè fermò
“dove, dov’è la fé
che ‘l traditor giurò?

Fa che ritorni il mio
amor com’ei pur fu,
o tu m’ancidi, ch’io
non mi tormenti più.”

Miserella, ah più no,
tanto gel soffrir non può.

“Non vo’ più che i sospiri
se non lontan da me,
no, no, che i suoi martiri
più non dirammi, affé!

Perché di lui mi struggo
tutt’orgoglioso sta,
che sì, che sì se ‘l fuggo
ancor mi pregherà?

Se ciglio ha più sereno
colei che ‘l mio non è,
già non rinchiude in seno
Amor si bella fé.

Né mai si dolci baci
da quella bocca havrai,
né più soavi; ah, taci,
taci, che troppo il sai.”

Sì tra sdegnosi pianti
spargea le voci al ciel;
così ne’ cori amanti
mesce Amor fiamma e gel.

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Non havea Febo ancora
recato al mondo il dì
ch’una donzella fuora
del proprio albergo uscì.

Sul pallidetto volto
scorgease il suo dolor,
spesso gli venia sciolto
un gran sospir dal cor.

Sì calpestando fiori,
errava hor qua, hor là,
i suoi perduti amori
così piangendo va:

“Amor,” dicea, il ciel
mirando il piè fermò
“dove, dov’è la fé
che ‘l traditor giurò?

Fa che ritorni il mio
amor com’ei pur fu,
o tu m’ancidi, ch’io
non mi tormenti più.”

Miserella, ah più no,
tanto gel soffrir non può.

“Non vo’ più che i sospiri
se non lontan da me,
no, no, che i suoi martiri
più non dirammi, affé!

Perché di lui mi struggo
tutt’orgoglioso sta,
che sì, che sì se ‘l fuggo
ancor mi pregherà?

Se ciglio ha più sereno
colei che ‘l mio non è,
già non rinchiude in seno
Amor si bella fé.

Né mai si dolci baci
da quella bocca havrai,
né più soavi; ah, taci,
taci, che troppo il sai.”

Sì tra sdegnosi pianti
spargea le voci al ciel;
così ne’ cori amanti
mesce Amor fiamma e gel.

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