Top menu

2009_sorgere_w.jpg2012_campo-papaveri_w.jpg2012_squarcio-di-luce_w.jpg2009_incendio_w.jpg2009_stagno_w.jpg2009_mantovainrosso_w.jpg2009_tramonto_w.jpg2011_paes-invernale-1_w.jpg2007_grandepino_w.jpg2009_tramonto2_w.jpg2011_paes-invernale-2_w.jpg2011_schiumadonda_w.jpg2010_steppa_w.jpg2012_nebbia-su-mantova_w.jpg2011_cespuglio_w.jpg2009_toscanasera_w.jpg2011_forza-del-vento_w.jpg2009_sottobosco_w.jpg2011_settembre_w.jpg2008_oltreorizzonte_w.jpg2008_acquitrino_w.jpg2011_marina_w.jpg2008_controlucemn_w.jpg2010_temporale_w.jpg2012_tre-alberi_w.jpg

Manzoni, Era il più bel chiaro di luna

Manzoni: era il più bel chiaro di luna

La scena del matrimonio d’inganno

 

Alessandro Manzoni (1785-1873)

 

Fermo e Lucia (1823)
dal tomo i cap. VII

 

I Promessi Sposi (1827)
dal cap. VIII

 

I Promessi Sposi (1840)
dal cap. VIII

 

 

[...]

   I quattro congiurati tutti diversamente commossi ascesero le scale, e posati che furono sul pianerottolo: Toni disse ad alta voce: «Deo gratias», ed entrò col fratello, mentre Don Abbondio che gli aspettava rispose: «Avanti». Fermo e Lucia ristettero dietro la porta: senza moversi, senza alitare: l’o­recchio il più fino non avrebbe potuto ivi intender altro che il battito del cuore di Lucia. Toni entrato socchiuse la porta dietro di sè.

 

[...]

   Renzo abbassò pian piano il saliscendo nel monachetto: e tutti quattro su per le scale, non facendo pur romore per due. Giunti sul pianerottolo, i due fratelli si fecero alla porta della stanza che era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero alla parete.

   «Deo gratias,» disse Tonio, a voce spiegata.

   «Tonio, eh? Entrate,» rispose la voce di dentro.  Il chiamato schiuse le imposte appena quanto era necessario per passare egli e il fratello ad un per volta. La riga di luce che uscì d'improvviso per quella apertura e scorse a traverso il pavimento oscuro del pianerottolo, fece trepidare Lucia, come s'ella fosse scoverta. Entrati i fratelli, Tonio si chiuse l'uscio dietro: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre, con le orecchie tese, tenendo il fiato: il romore più forte era il martellar che faceva il povero cuore di Lucia.

 

[...]

   Renzo accostò di nuovo l’uscio pian piano; e tutt’e quattro su per le scale, non facendo rumore neppur per uno. Giunti sul pianerottolo, i due fratelli s’avvicinarono all’uscio della stanza, ch’era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero al muro.

   – Deo gratias, – disse Tonio, a voce chiara.

   – Tonio, eh? Entrate, – rispose la voce di dentro. Il chiamato aprì l’uscio, appena quanto bastava per poter passar lui e il fratello, a un per volta. La striscia di luce, che uscì d’improvviso per quella apertura, e si disegnò sul pavimento oscuro del pianerottolo, fece riscoter Lucia, come se fosse scoperta. Entrati i fratelli, Tonio si tirò dietro l’uscio: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre, con l’orecchie tese, tenendo il fiato: il rumore più forte era il martellar che faceva il povero cuore di Lucia.

   Don Abbondio convalescente della febbre, e non guarito della paura stava seduto su un vecchio seggiolone, ravvolto in una vecchia zimarra, coperto il capo d’un vecchio camauro, sotto il quale si vedeva uno sguardo sospettoso e teso, un lungo naso, e fra due guance pendenti una bocca quale ognuno l’ha dopo d’aver sorbita una ostica medicina. Aveva dinanzi a sè una vecchia tavola e sulla tavola una picciola lucerna che mandava una luce scarsa sulla tavola e sui dintorni, e lasciava il resto nelle tenebre. Presso alla lucerna era il breviale, e aperto dinanzi a Don Abbondio il Quaresimale....

   Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, imbacuccato in un vecchio berretto a foggia di camauro che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d’una picciola lucerna. Due folte ciocche che gli scappavano fuor del berretto, due folti sopraccigli, due folti mustacchi, un folto pizzo pel lungo del mento, tutti canuti e sparsi su quella faccia brunazza e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli nevicosi sporgenti da un dirupo, al chiarore della luna.

   Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina, che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d’una piccola lucerna. Due folte ciocche di capelli, che gli scappavano fuor della papalina, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli coperti di neve, sporgenti da un dirupo, al chiaro di luna.

   «Ah! ah!» fu il saluto di Don Abbondio.

   «Ah! ah!» fu il suo saluto, mentre si cavava gli occhiali e gli riponeva nel libricciuolo.

   – Ah! ah! – fu il suo saluto, mentre si levava gli occhiali, e li riponeva nel libricciolo.

   «Il signor Curato dirà che siamo venuti tardi», disse Toni inchinandosi, come pure fece più goffamente Gervaso.

   «Venite tardi in tutti i modi», rispose Don Abbondio. «Basta, vediamo».

 

   «Dirà il signor curato che son venuto tardi,» disse Tonio, inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente, Gervaso.

   «Sicuro che è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete che sono ammalato?»

    «Oh me ne spiace!»

   «L’avrete inteso dire, sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere... Ma perchè vi siete tirato dietro quel... quel figliuolo?»

   «Così per compagnia, signor curato.»

   «Basta, vediamo.»

   – Dirà il signor curato, che son venuto tardi, – disse Tonio, inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente, Gervaso.

   – Sicuro ch’è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete, che sono ammalato?

   – Oh! mi dispiace.

   – L’avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere... Ma perché vi siete condotto dietro quel... quel figliuolo?

   – Così per compagnia, signor curato.

   – Basta, vediamo.

   «Sono venticinque buone lire di quelle con Sant’Ambrogio a cavallo», disse Toni cavando un gruppetto di tasca.

   «Vediamo», replicò il curato: le prese, le volse e le rivolse e le numerò, e furono trovate irreprensibili.

   «Sono venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant’Ambrogio a cavallo,» disse Tonio, cavandosi un gruppetto di tasca.

   «Vediamo,» replicò don Abbondio: e preso il gruppetto, si rimesse gli occhiali, lo spiegò, cavò le berlinghe, le volse, le rivolse, le noverò, le trovò irreprensibili.

   – Son venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant’Ambrogio a cavallo, – disse Tonio, levandosi un involtino di tasca.

   – Vediamo, – replicò don Abbondio: e, preso l’involtino, si rimesse gli occhiali, l’aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza difetto.

   «Ora signor curato mi darà gli orecchini e la collana della mia povera Tecla».

   «Ora, signor curato, mi darà la collana della mia Tecla.» ì

   – Ora, signor curato, mi darà la collana della mia Tecla.

   «È giusto» rispose don Abbondio; e andò ad un armadio e cacciata una chiave, guardandosi intorno come per tener lontani gli spettatori, aperse una parte d’imposta, riempì l’apertura colla persona, introdusse la testa per guardare e un braccio per ritirare il pegno; lo ritirò, chiuse l’armadio, svolse la carta dov’era il pegno, e guardatolo, «c’è tutto?» disse, indi lo consegnò a Toni.

   «È giusto,» rispose don Abbondio: e andò ad un armadio, e cacciata una chiave, guardandosi intorno come per tener lontani gli spettatori, aperse una parte d’imposta, riempì l’apertura colla persona, introdusse la testa per guardare e un braccio per ritirare il pegno; lo ritirò, chiuse l’armadio, svolse il cartoccino, disse: «va bene?» lo ripiegò, e lo consegnò a Tonio.

   – È giusto, – rispose don Abbondio; poi andò a un armadio, si levò una chiave di tasca, e, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori, aprì una parte di sportello, riempì l’apertura con la persona, mise dentro la testa, per guardare, e un braccio, per prender la collana; la prese, e, chiuso l’armadio, la consegnò a Tonio, dicendo: – va bene?

   «Ora», disse Toni, «mi favorisca di una riga di quitanza».

   «Non vi fidate?» rispose bruscamente Don Abbondio. «Ecco volete darmi anche quest’incomodo».

 

   «Che dice ella mai? S’io mi fido, Signor Curato: ma dalla vita alla morte...»

   «Ora,» disse questi, «si contenti di mettere un po’ di nero sul bianco.»

   «Anche questa!» disse don Abbondio: «le sanno tutte. Ih! com’è divenuto sospettoso il mondo! Non vi fidate di me?»

   «Come, signor curato! s’io mi fido? Ella mi fa torto. Ma, siccome il mio nome è sul suo libraccio, dalla parte del debito... dunque giacchè ella ha già avuto l’incomodo di scrivere una volta, così... dalla vita alla morte...»

   – Ora, – disse Tonio, – si contenti di mettere un po’ di nero sul bianco.

   – Anche questa! – disse don Abbondio: – le sanno tutte. Ih! com’è divenuto sospettoso il mondo! Non vi fidate di me?

   – Come, signor curato! s’io mi fido? Lei mi fa torto. Ma siccome il mio nome è sul suo libraccio, dalla parte del debito... dunque, giacché ha già avuto l’incomodo di scrivere una volta, così... dalla vita alla morte...

   «Bene, bene, come volete. Oh che seccatura! Bisognerà ch’io ponga inchiostro nel calamajo. Perpetua, dov’è costei? Perpetua!»

   «Perpetua era da basso, tutta affacendata a prepararle da cena: la lasci stare, Signor Curato: cerchi il calamajo che farà più presto».

   Così brontolando tirò un cassettino del tavolo, ne tolse carta, penna e calamajo, e si pose a scrivere, dettandosi col capo sulla carta ad alta voce la composizione. Frattanto Toni, e Gervaso com’era convenuto si posero dinanzi allo scrittore in modo da togliergli la veduta della porta; e come per ozio andavano soffregando coi piedi il pavimento, per dar agio ai di fuori di venire avanti senza essere intesi. Don Abbondio tutto nella sua quitanza non badava ad altro. Al fruscio dei quattro piedi che era il segno convenuto, Fermo strinse la mano di Lucia per darle risoluzione, la pigliò con sè, e pian piano entrarono nella porta, Lucia più morta che viva, e si collocarono dietro i due fratelli. Don Abbondio finito ch’ebbe di scrivere rilesse attentamente, da sè, quindi fatta lettura ad alta voce, e prima di alzare gli occhi dalla carta: «sarete contento?» disse, e preso il foglio lo porse a Toni. Toni allungando la mano per pigliarlo, si ritirò da una parte, Gervaso dall’altra, e i due sposi apparvero in mezzo come all’alzare d’un sipario. Don Abbondio intravvide, vide, si spaventò, si stupì, s’infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Fermo impiegò a proferire le parole magiche: «Signor curato, in presenza di questi testimonj, questa è mia moglie».

   «Bene bene,» interruppe don Abbondio, e brontolando, tirò a sè un cassetto del tavolino, ne tolse carta, penna e calamaio, e si pose a scrivere, ripetendo a viva voce le parole, a misura che gli uscivano dalla penna. Frattanto Tonio, e ad un suo cenno Gervaso, si posero in piedi dinanzi al tavolino in modo di togliere allo scrittore la vista della porta; e come per ozio andavano soffregando coi piedi il pavimento, per dar segno a quei di fuori che entrassero, e per confondere nello stesso tempo il romore delle loro pedate. Don Abbondio attuffato nella sua scrittura non badava ad altro. Al fruscìo dei quattro piedi, Renzo prese un braccio di Lucia, lo strinse per darle coraggio, e si mosse traendosela dietro tutta tremante, che da per sè non vi si sarebbe potuta condurre. Entrarono pian piano, in punta di piedi, comprimendo il respiro, e si collocarono dietro i due fratelli. Intanto don Abbondio, finito di scrivere, rilesse attentamente, senza sollevar gli occhi dalla carta; la piegò, dicendo: «sarete contento ora?» e levatisi con una mano gli occhiali dal naso, sporse con l’altra il foglio a Tonio, alzando la faccia. Tonio, stendendo la destra a prenderlo, si ritirò da una parte, Gervaso, ad un suo cenno, dall’altra: ed ecco, come al dividersi d’una scena, apparire nel mezzo Renzo e Lucia. Don Abbondio intravvide, vide, si spaventò, si stupì, s’infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Renzo mise a proferire le parole: «signor curato, in presenza di questi testimonii, quest’è mia moglie.»

   – Bene bene, – interruppe don Abbondio, e brontolando, tirò a sé una cassetta del tavolino, levò fuori carta, penna e calamaio, e si mise a scrivere, ripetendo a viva voce le parole, di mano in mano che gli uscivan dalla penna. Frattanto Tonio e, a un suo cenno, Gervaso, si piantaron ritti davanti al tavolino, in maniera d’impedire allo scrivente la vista dell’uscio; e, come per ozio, andavano stropicciando, co’ piedi, il pavimento, per dar segno a quei ch’erano fuori, d’entrare, e per confondere nello stesso tempo il rumore delle loro pedate. Don Abbondio, immerso nella sua scrittura, non badava ad altro. Allo stropiccìo de’ quattro piedi, Renzo prese un braccio di Lucia, lo strinse, per darle coraggio, e si mosse, tirandosela dietro tutta tremante, che da sé non vi sarebbe potuta venire. Entraron pian piano, in punta di piedi, rattenendo il respiro; e si nascosero dietro i due fratelli. Intanto don Abbondio, finito di scrivere, rilesse attentamente, senza alzar gli occhi dalla carta; la piegò in quattro, dicendo: – ora, sarete contento? – e, levatosi con una mano gli occhiali dal naso, la porse con l’altra a Tonio, alzando il viso. Tonio, allungando la mano per prender la carta, si ritirò da una parte; Gervaso, a un suo cenno, dall’altra; e, nel mezzo, come al dividersi d’una scena, apparvero Renzo e Lucia. Don Abbondio, vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò, si stupì, s’infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Renzo mise a proferire le parole: – signor curato, in presenza di questi testimoni, quest’è mia moglie –.

   Le labbra di Fermo non erano ancor tornate in riposo, che Don Abbondio aveva già lasciata cadere la quitanza, fatto un salto, afferrata colla manca e sollevata la lucerna, e tirato colla destra a sè un tappeto che copriva il tavolo, gettando a terra il breviale e il quaresimale, e balzando tra la seggiola e il tavolo s’era avvicinato a Lucia; la poveretta con quella sua dolce voce tremante aveva appena potuto dire: «e questo...» che Don Abbondio gli aveva gettato scortesemente il tappeto sulla testa e sul volto e tenendoglielo colle mani ravvolto e stretto sulla bocca perch’ella non potesse proseguire, gridava a testa come un toro ferito: «tradimento! tradimento! ajuto! ajuto!» Il lucignolo della lucerna che Don Abbondio aveva lasciata cadere a terra, si moriva mandando un ultimo chiarore, e la povera Lucia appoggiata a Fermo, coperta così di quel ruvido velo pareva una statua sbozzata in creta, cui un rozzo fattore dell’artefi­ce copre, da testa, con un umido panno. Cessata ogni luce Don Abbondio lasciò la poveretta la quale già per sè non avrebbe più potuto proseguire, e pratico com’era del luogo, trovò tosto a tentone la porta della stanza vicina, v’entrò, vi si chiuse, e continuò a gridare: «tradimento! Perpetua! accorr’uomo! gente in casa! clandestino: tre anni di sospensione! una schioppettata! fuori di questa casa! fuori di questa casa! Perpetua! dov’è costei!» Nella stanza tutto era confusione: Fermo, inseguendo come poteva il curato, aveva trascinata con sè Lucia alla porta, e bussava gridando: «apra apra, non faccia schiamazzo: apra, o la vedremo»: Toni curvo a terra, girava le mani sul pavimento per trovare la sua quitanza, e Gervaso spiritato gridava, e andava cercando la porta della scala per porsi in salvo.

   Le sue labbra non erano ancora tornate in riposo, che don Abbondio aveva già lasciata cadere la quitanza, afferrata colla manca, e sollevata la lucerna, ghermito con la destra il tappeto che copriva la tavola e tiratolo a sè con furia, gittando a terra libro, carta, calamaio e polverino; e balzando tra la seggiola e la tavola s’era avvicinato a Lucia. La poveretta con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: «e questo...» che don Abbondio le aveva gittato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul volto, per impedirle di pronunziare intera la formola. E tosto, lasciata cadere la lucerna che teneva nell’altra mano, si aiutò anche con quella a ravvolgerle quel drappo intorno alla faccia, che quasi l’affoga­va; e intanto gridava a testa, come un toro ferito: «Perpetua, Perpetua, tradimento, aiuto!» Il lucignolo morente sul pavimento mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale affatto smarrita, non tentava pure di svilupparsi, e poteva parere una statua sbozzata in creta, sulla quale l’artefice ha gittato un umido panno. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò cercando a tentone la porta che metteva ad una stanza più interna, la trovò, vi entrò, si chiuse dentro, gridando tuttavia: «Perpetua, tradimento, aiuto, fuori di questa casa, fuori di questa casa.» Nell’altra stanza tutto era confusione: Renzo, cercando di cogliere il curato, e remigando colle mani, come se facesse a gatta cieca, era giunto alla porta, e bussava, gridando: «apra, apra, non faccia schiamazzo.» Lucia chiamava Renzo con voce fioca, e diceva supplicando: «andiamo, andiamo, per amor di Dio.» Tonio, carpone andava scopando colle mani il pavimento, per adunghiare la sua quitanza. Gervaso spiritato, gridava e trasaltava, cercando la porta della scala per uscire a salvamento.

   Le sue labbra non erano ancora tornate al posto, che don Abbondio, lasciando cader la carta, aveva già afferrata e alzata, con la mancina, la lucerna, ghermito, con la diritta, il tappeto del tavolino, e tiratolo a sé, con furia, buttando in terra libro, carta, calamaio e polverino; e, balzando tra la seggiola e il tavolino, s’era avvicinato a Lucia. La poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: – e questo... – che don Abbondio le aveva buttato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di pronunziare intera la formola. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell’altra mano, s’aiutò anche con quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la soffogava; e intanto gridava quanto n’aveva in canna: – Perpetua! Perpetua! tradimento! aiuto! – Il lucignolo, che moriva sul pavimento, mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita, non tentava neppure di svolgersi, e poteva parere una statua abbozzata in creta, sulla quale l’artefice ha gettato un umido panno. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò cercando a tastoni l’uscio che metteva a una stanza più interna; lo trovò, entrò in quella, si chiuse dentro, gridando tuttavia: – Perpetua! tradimento! aiuto! fuori di questa casa! fuori di questa casa! – Nell’altra stanza, tutto era confusione: Renzo, cercando di fermare il curato, e remando con le mani, come se facesse a mosca cieca, era arrivato all’uscio, e picchiava, gridando: – apra, apra; non faccia schiamazzo –. Lucia chiamava Renzo, con voce fioca, e diceva, pregando: – andiamo, andiamo, per l’amor di Dio –. Tonio, carpone, andava spazzando con le mani il pavimento, per veder di raccapezzare la sua ricevuta. Gervaso, spiritato, gridava e saltellava, cercando l’uscio di scala, per uscire a salvamento.

   In mezzo a questo serra serra, non possiamo a meno di fermarci un istante per fare una riflessione. Fermo il quale strepitava in casa altrui, che vi s’era introdotto frodolentemente, che assediava il padrone in una stanza, pare un soperchiatore, un torbido; e pure gli era un poveretto a cui si negava la ragione la più limpida, la più sacra. Don Abbondio impaurito, minacciato mentre tranquillamente attendeva ai fatti suoi pare l’oppresso, la vittima, l’uomo onesto, e pure era egli in realtà il soperchiatore. Così va il mondo; o... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.

   In mezzo a questo serra serra, non possiamo lasciare di arrestarci un momento a fare una riflessione. Renzo, il quale strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era tramesso di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’appa­renza d’un oppressore; eppure alla fine del fatto, egli era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente ai fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure in realtà era egli che faceva torto. Così va sovente il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.

   In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.

   Don Abbondio, vedendo che il nimico non voleva sgomberare, si fece ad una finestra che dava sul sagrato, a gridare accorr’uomo. Batteva la più bella luna del mondo, e l’ombra della chiesa e del campanile si disegnava sulle erbe lucenti del sagrato: per quell’ombra veniva tranquillamente con un gran mazzo di chiavi pendente alla mano il sagrista, il quale dopo suonata l’avemaria era rimasto a scopare la chiesa e a governare gli arredi dell’altare.

   L’assediato, veggendo che il nemico non dava segno di sgomberare, aperse una finestra che guardava in sul sagrato, e si diede a gridare: «aiuto! aiuto!» Batteva la più bella luna del mondo: l’ombra della chiesa, e più in fuori l’ombra lunga ed acuta del campanile si stendeva bruna, immobile e netta sul piano erboso e lucente del sagrato: ogni oggetto si poteva discernere quasi come di giorno. Ma fin dove giungeva lo sguardo, non appariva indizio di persona vivente. Contiguo però al muro laterale della chiesa, e appunto dal lato che guardava verso la casa parrocchiale, era un picciolo abituro, un bugigattolo dove dormiva il sagrestano. Fu questi riscosso da quello sformato grido, fe’ un balzo in sul letto, ne scese in fretta, aperse l’impannata d’una sua finestrella, mise la testa fuori, colle palpebre incollate tuttavia, e disse: «che cosa c’è?»

   L’assediato, vedendo che il nemico non dava segno di ritirarsi, aprì una finestra che guardava sulla piazza della chiesa, e si diede a gridare: – aiuto! aiuto! – Era il più bel chiaro di luna; l’ombra della chiesa, e più in fuori l’ombra lunga ed acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso e lucente della piazza: ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno. Ma, fin dove arrivava lo sguardo, non appariva indizio di persona vivente. Contiguo però al muro laterale della chiesa, e appunto dal lato che rispondeva verso la casa parrocchiale, era un piccolo abituro, un bugigattolo, dove dormiva il sagrestano. Fu questo riscosso da quel disordinato grido, fece un salto, scese il letto in furia, aprì l’impannata d’una sua finestrina, mise fuori la testa, con gli occhi tra’ peli, e disse: – cosa c’è?

[...]

   «Lorenzo!» gridò il curato, «accorrete, gente in casa! ajuto». Lorenzo si sbigottì, ma con quella rapidità d’in­gegno che danno i casi urgenti, pensò tosto al modo di dare al curato più soccorso ch’egli non chiedeva, e di farlo senza suo rischio. Corse indietro alla porta della chiesa, scelse nel mazzo la grossissima chiave, aperse, entrò, andò difilato al campanile, prese la corda della più grossa campana, e tirò a martello.

   «Correte, Ambrogio! aiuto! gente in casa,» gridò verso lui don Abbondio. «Vengo subito,» rispose quegli; tirò indietro la testa, richiuse la sua impannata, e quantunque mezzo trasognato e più che mezzo sbigottito, trovò su due piedi uno spediente per dar più aiuto che non gliene venisse dimandato, senza cacciarsi egli nel tafferuglio, qual ch’ei fosse. Dà di piglio alle brache che teneva sul letto, cacciasele sotto il braccio come un cappello di gala, e giù balzelloni per una scaletta di legno; corre al campanile, afferra la corda della più grossa di due campanette che v’erano, e suona a martello.

[...]

   – Correte, Ambrogio! aiuto! gente in casa, – gridò verso lui don Abbondio. – Vengo subito, – rispose quello; tirò indietro la testa, richiuse la sua impannata, e, quantunque mezzo tra ‘l sonno, e più che mezzo sbigottito, trovò su due piedi un espediente per dar più aiuto di quello che gli si chiedeva, senza mettersi lui nel tafferuglio, quale si fosse. Dà di piglio alle brache, che teneva sul letto; se le caccia sotto il braccio, come un cappello di gala, e giù balzelloni per una scaletta di legno; corre al campanile, afferra la corda della più grossa di due campanette che c’erano, e suona a martello.

[...]