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Goldoni, "Don Giovanni"

Goldoni: statue a cena o fulmini in testa?

Un Don Giovanni iper-razionalistico

 

Carlo Goldoni (1785-1873)

da Don Giovanni Tenorio o sia Il dissoluto, commedia (1736)

 

L’Autore a chi legge

Un secolo ora sarà per l’appunto, che uscì dalla Spagna il Convitato di Pietra, Commedia fortunatissima di Don Pedro Calderon della Barca, la quale piena zeppa d’improprietà, d’inconve­nienze com’era, e come vedesi tuttavia da alcuni Comici Italiani rappresentare, fu in Italiano tradotta da Giacinto Andrea Cicognini Fiorentino, ed anche da Onofrio Giliberto Napoletano, pochissima differenza essendovi fra queste due traduzioni. Non si è veduto mai sulle Scene una continuazione d’applauso popolare per tanti anni ad una scenica Rappresentazione, come a questa, lo che faceva gli stessi Comici maravigliare, a segno che alcuni di essi, o per semplicità, o per impostura, solevano dire, che un patto tacito col Demonio manteneva il concorso a codesta sciocca Commedia. In fatti che mai di peggio poteasi vedere rappresentare, e qual altra composizione meritava d’esser più di questa negletta? Un uomo s’introduce di notte negli appartamenti del Re di Napoli, vien ricevuto da una donzella nobile al buio, l’accoglie questa d’un altro in vece fra le sue braccia, e dell’inganno solamente s’avvede allora quando le vuol fuggire di mano. Alle querule voci d’una sì onesta Dama comparisce il Re di Napoli col suo candelier nelle mani; Don Giovanni colla spada gli spegne il lume, e resta Sua Maestà all’oscuro. Scoperto, il Cavalier dissoluto parte per Castiglia; una burrasca lo getta in mare, e la fortuna lo fa balzare sul lido, colla parrucca incipriata, e senza essergli nemmen bagnate le scarpe. Non parlo del servidore compagno del suo naufragio e della sua fortuna, con cui fa cambio graziosamente d’improperi, di villanie e di calci, ma è ben cosa mirabile la velocità, con cui fa passare l’Eroe da un Regno all’altro, per farlo agire in Castiglia; e per non perdermi inutilmente a far l’analisi d’una Commedia, che in ogni Scena ha la sua porzione di spropositi e d’improprietà, basta per tutte le altre la Statua di marmo eretta in pochi momenti, che parla, che cammina, che va a cena, che a cena invita, che minaccia, che si vendica, che fa prodigi, e per corona dell’ope­ra, tutti gli ascoltatori passano vivi e sani in compagnia del Protagonista a casa del Diavolo, e mescolando con le risa il terrore, si attristano i più devoti, e se ne beffano i miscredenti. Monsieur de Saint-Euremont prendendo il Convitato di Pietra per una tragedia, pone in ridicolo gl’Italiani che la soffrivano, ma egli si rende con ciò assai più degno di riso, mostrando non aver letto le bellissime Tragedie nostre, e volendo metter fra queste una sì sconcia Tragicommedia, se qualche cosa più di Commedia piacevagli considerarla. Finalmente non è che un originale Spagnuolo tradotto nel nostro idioma, e se vogliamo esaminare i soggetti che concorrevano, e tuttavia ad udirla in folla concorrono, vedremo esser il grande uditorio composto di serve, di servidori, di fanciulli, di gente bassa, ignorantissima, che delle scioccherie si compiace, e appagasi delle stravaganze. Pure qualche cosa convien dire che vi sia di buono in tale scorretta ed irregolare Commedia, se forza ha ella avuto per tanti anni di reggersi, ed a cotal gente piacere. Io ciò attribuisco al costume ed alla moralità: due parti di buona commedia che si riscontrano in essa, le quali, quantunque frammischiate con mille inezie e improprietà, recavano qualche diletto in un secolo guasto e corrotto, in cui poco di meglio sul Teatro nostro rappresentavasi. Il celebre Autor Francese Moliere ha conosciuto, che in tal Commedia eravi qualche buon capitale, e come fatto egli aveva di parecchie altre Commedie e Italiane e Spagnuole, adottò anche questa per sua, servendosi dell’argomento, e variandola nella condotta. Quello però che io trovo di condannabile nel di lui Festin de pierre si è l’empietà eccedente di Don Giovanni, espressa con parole e con massime che non possono a meno di non scandalizzare anche gli uomini più scorretti, e l’immitazio­ne con cui ha seguito l’originale Spagnuolo, facendo e parlare e camminare la statua del Commendatore. Anche Tommaso Cornelio, ponendo in versi la Commedia medesima che scritto aveva Moliere in prosa, le di lui traccie onninamente osservando, lo ha seguitato nella medesima improprietà, quasi che non si potesse condur la favola senza una simile stravaganza. Io, ad esempio di Comici sì valorosi, compiaciuto mi sono di maneggiare un tale argomento, ma di ridurlo a proprietà maggiore, in una sola cosa, cioè nel castigo di Don Giovanni, Moliere piuttosto che Calderone imitando, servendomi del prodigio del fulmine per rendere punite le colpe di un dissoluto. I fulmini a ciel sereno cadono purtroppo naturalmente, ma ciò non ostante, non ardisco io figurare una combinazione sì stravagante, in virtù della quale formisi nell’aria il folgore, scoppi in quel punto, e Don Giovanni colpisca. Intendo piuttosto, che ciò attribuir si debba ad un prodigio, con cui la giustizia divina punisce uno scellerato nel momento medesimo in cui colle sue imprecazioni la provoca e la disprezza. Di tali prodigi piene abbiamo le sacre carte, e non vi sarà chi ardisca di porlo in dubbio, se ateo non fosse, ed il potere divino follemente non contrastasse. O non doveasi porre in iscena un vizioso di tal carattere, o si dovea veder punito, correggendo lo scandalo degli scellerati costumi suoi con un gastigo visibile e pronto, onde gli ascoltatori, che in qualche parte potevano compiacersi della mala vita di Don Giovanni, partissero poi atterriti dal suo miserabile fine, temendo sempre più la giustizia d’Iddio, che tollera fino ad un certo segno le colpe, ma ha pronti i fulmini per vendicarle. Io non avrei scelto per me medesimo un così empio Protagonista, se altri non lo avessero fatto prima di me, ed ho anzi preteso di compiacere l’universale invaso dall’allettamento di questa favola, moderandone l’empietà e il mal costume, e di quelle infinite scioccherie spogliandola, che vergogna recavano alle nostre Scene. Se prima era una buffoneria la morte di Don Giovanni, se ridere facevano anche i Demoni, che tra le fiamme lo circondavano, ora è una cosa seria il di lui gastigo, e in tal punto ed in tal modo succede, che può destare il terrore ed il pentimento in chi di Don Giovanni una copia in se medesimo riconoscesse. Per questa ragione ho io intitolata una tale commedia Il Dissoluto; non potea intitolarla Il Convitato di pietra; non avendo io l’abilità di fare intervenire ai conviti le statue. Il protagonista è Don Giovanni, sopra di lui la peripezia va a cadere, il suo carattere è dissoluto, le operazioni sue per tutta la favola non sono che dissolutezze; ragionevolmente mi pare adunque che un cotal titolo gli convenga.  Piacquemi di scrivere cotal Commedia in versi anziché in prosa, per quella ragione che giudico io possa avere indotto a fare lo stesso Tommaso Cornelio. I sentimenti poco onesti, e le massime temerarie, le pericolose proposizioni, in prosa feriscono più facilmente l’orecchio degli uditori, e per dir vero non si può senza nausea leggere alcune scene di Don Giovanni nel Festin de pierre di Moliere medesimo. In verso le cose si dicono con un poco più di moderazione, si adoperano delle frasi più caute, delle allegorie più discrete, si possono i Dei nominare, e la Commedia conservando il carattere istesso, prende un’aria meno scorretta, e meno agl’ignoranti pericolosa. Aggiungasi, che nella Commedia in prosa possono i recitanti arbitrare, e aggiungere a lor piacere delle sconce parole, lo che dai versi viene loro impedito di poter fare, siccome avendole io levate le maschere per il medesimo fine, spero che avrò ottenuto l’intento mio uniformandomi all’onesto piacere degli uditori discreti, ed alle Cristiane massime di questo Serenissimo pio Governo, che niuna opera lascia correre sulle scene, che riveduta prima non sia, e da ogni scandalo e da ogni disonestà rigorosamente purgata.

 

Don Giovanni [ebook doc]