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Quincey, Intelletto e sensualità

Quincey: catena sensuale d’una creatura intellettuale

*

 

Thomas de Quincey (1785-1859)
da Confessioni di un inglese consumatore di oppio (1822; 1856)

 

AL LETTORE

Eccoti qua, cortese lettore, la storia di un notevole periodo della mia vita: e confido che sarà per te, come è stata per me, non solo una storia interessante, ma in qualche modo anche utile e istruttiva. L’ho scritta con questa speranza, e questa sia la mia scusa se son venuto meno a quel delicato, dignitoso riserbo che per lo più ci trattiene dall’esporre in pubblico i nostri errori e le nostre debolezze. Per la sensibilità inglese infatti non c’è nulla di più disgustoso dello spettacolo di un essere umano che impone alla nostra attenzione le sue piaghe, le sue cicatrici morali, e strappa quel «pietoso velo» che il tempo o l’indulgenza verso l’umana debolezza può avere steso su di esse. Di conseguenza, la più gran parte delle nostre confessioni (cioè delle confessioni spontanee, non di quelle fatte in tribunale) proviene da donne di dubbia riputazione, da avventurieri o da imbroglioni, e per un simile genere di autoumiliazione gratuita da parte di coloro che si possono supporre in regola con la società per bene, dotata di amor proprio, dobbiamo rivolgerci alla letteratura francese, o a quella sezione della tedesca ch’è guasta dalla sensibilità spuria e imperfetta dei francesi. Di tutto questo sono così consapevole e sono così sensibile a un rimprovero di questo genere, che per molti mesi ho esitato, domandandomi se fosse opportuno che questa o qualsiasi parte del mio racconto fosse data in pasto al pubblico prima della mia morte, quando per molte ragioni tutto quanto sarà pubblicato: e solo dopo una ansiosa ricapitolazione di tutti gli argomenti pro e contro questo passo, mi sono alla fine deciso a farlo.

La colpa e la miseria rifuggono per istinto naturale dalla pubblicità. Esse adorano l’intimità e la solitudine, ed anche nella scelta di una tomba si separano talvolta dalla popolazione generale del cimitero, quasi ripudiassero ogni comunanza con la gran famiglia dell’uomo e desiderassero, come dice tanto bene il Wordsworth:

... esprimere umilmente
la solitudine di chi si pente.

È bene, in complesso, e nell’interesse di tutti noi, che sia così: e non vorrei manifestare proprio io, e nei miei riguardi, un disprezzo di sentimenti così salutari, né fare alcunché con atti o con parole, per indebolirli. Ma come da una parte la mia autoaccusa non arriva alla confessione di una colpa, così dall’altra è possibile che se vi arrivasse, il bene derivante ad altri dal racconto di un’esperienza fatta a così caro prezzo, potrebbe compensare largamente ogni offesa ai sentimenti che ho notato, e giustificare uno strappo alla regola generale. L’infermità e la miseria non significano di necessità una colpa. Esse si avvicinano o si allontanano dalle ombre di quella oscura compagnia, in proporzione dei motivi probabili e delle probabili intenzioni dell’imputato, e delle attenuanti conosciute o segrete, del delitto: e secondo che le tentazioni furono forti dal principio, e la resistenza, come atto o come sforzo, fu sincera fino alla fine. Per parte mia, senza venir meno alla verità o alla modestia, posso affermare che la mia vita è stata nell’insieme la vita di un filosofo: fin dalla nascita sono stato una creatura intellettuale, e intellettuali nel più alto senso sono state le mie occupazioni e i miei piaceri fin dai miei giorni di scuola. Se il prender oppio è un piacere sensuale, e se son disposto a confessare di essermivi abbandonato fino a un punto non ancora registrato per nessun altro uomo, non è men vero che ho lottato contro questa affascinante schiavitù con uno zelo religioso, e ho compiuto alla fine ciò che non ho mai sentito attribuire a nessun altro uomo; mi sono sciolto, fin quasi agli ultimi anelli, dalla maledetta catena che mi legava. È ragionevole considerare che una simile vittoria su se stesso possa controbilanciare ogni genere, ogni grado di debolezza. Per non dire che nel mio caso la vittoria su se stesso era incontestata, mentre tutti i dubbi della casistica erano leciti sulla debolezza, secondo che si applichi codesto nome anche ad atti che mirino al solo sollievo del dolore, o ci si limiti ad usarlo per quelli che tendano a provocare un piacere positivo.

Dunque non mi riconosco nessuna colpa: ed anche se me la riconoscessi, può darsi che mi risolverei lo stesso al presente atto di confessione, in considerazione del servizio che con esso posso rendere all’intera classe degli oppiomani. Ma chi sono, questi? Lettore, mi dispiace dirtelo, sono una classe davvero molto numerosa. Me ne persuasi qualche anno fa, quando contai il numero di coloro che in quel tempo, e in una piccola classe della società inglese (la classe degli uomini illustri per il loro ingegno o la loro posizione) mi risultavano, direttamente o indirettamente, come dediti all’oppio: quali per esempio l’eloquente e caritatevole William Wilberforce; il defunto dott. Isacco Milner decano di Carlisle; Lord Erskine; il filosofo X; il defunto sottosegretario di Stato Addington, fratello di Lord Sidmouth, il quale mi descrisse la sensazione che lo spinse la prima volta all’uso dell’oppio, proprio con le stesse parole del decano di Carlisle, cioè «ch’egli sentiva come se dei topi gli rodessero e raschiassero le pareti dello stomaco»; il Coleridge e molti altri, poco meno conosciuti, che sarebbe tedioso elencare. Ora, se una sola classe, proporzionatamente così limitata, poteva presentare parecchie dozzine di casi (e tutti a conoscenza di un solo indagatore), se ne poteva dedurre naturalmente che l’intera popolazione dell’Inghilterra ne avrebbe presentati in proporzione. Tuttavia io ebbi dei dubbi sulla validità di questa deduzione, finché venni a conoscenza di alcuni fatti che mi persuasero della sua fondatezza. Ne ricorderò due: 1) Tre rispettabili droghieri londinesi, in quartieri di Londra molto distanti l’uno dall’altro, dai quali per caso ho acquistato recentemente delle piccole quantità di oppio, mi assicuravano che il numero di oppiomani dilettanti (se posso così chiamarli) era a quel tempo immenso; e che la difficoltà di distinguere queste persone, per le quali l’oppio era diventato necessario a forza di abitudine, da quelle che lo acquistavano a scopo suicida, causava loro fastidi e discussioni ogni giorno. Questa testimonianza riguardava Londra. Ma, 2), e questo probabilmente sorprenderà di più il lettore, qualche anno fa, passando per Manchester, fui informato da alcuni industriali del cotone che i loro operai stavano prendendo rapidamente l’abitudine dell’oppio, tanto che il sabato pomeriggio i banchi dei droghieri erano cosparsi di pillole da uno, due o tre grani, pronte per le ben note richieste della sera. La causa immediata di ciò era il basso livello dei salari, che a quel tempo non avrebbe permesso di darsi alla birra o all’alcool: e si poteva pensare che con l’aumento dei salari quell’abitudine sarebbe cessata. Ma io non sono disposto a credere che uno che abbia gustato una volta le divine gioie dell’oppio, possa poi discendere ai grossolani, comuni piaceri dell’alcool, e quindi do per certo che

Quei che mai non lo prese, ora lo prende,
e chi sempre lo prese, or più ne prende.

Invero il fascino dell’oppio è ammesso anche dai medici, che sono i suoi più grandi nemici. Così per esempio Awsiter, farmacista dell’Ospedale di Greenwich, nel suo Saggio sugli effetti dell’oppio (pubblicato nell’anno 1763) quando si sforza di spiegare perché il Mead non era stato sufficientemente esplicito sulle proprietà e gli usi di questa droga, si esprime nei seguenti termini misteriosi: «Forse egli riteneva questo soggetto di natura troppo delicata per metterlo in pubblico; e poiché molti potrebbero allora servirsene senza giudizio, se ne andrebbero quel necessario timore, quella cautela che dovrebbero impedire la loro esperienza dei vasti poteri di questa droga: poiché ci sono in essa molte proprietà che se fossero conosciute da tutti, ne renderebbero l’uso abituale, e la farebbero più ricercata tra noi che tra gli stessi turchi: e il risultato di questa conoscenza,» egli aggiunge, «si risolverebbe in una disgrazia per tutti.» Io non sono d’accordo completamente sulla necessità di questa conclusione: ma su questo punto avrò occasione di parlare alla fine delle mie confessioni, quando offrirò al lettore la morale del mio racconto.