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Chateaubriand, Indeterminatezza delle passioni

Chateaubriand: l’indeterminatezza delle passioni

 

 

François René de CHATEAUBRIAND (1768-1848)

“L’indeterminatezza delle Passioni”, da Il Genio del Cristianesimo, parte ii, libro iii, cap. ix (1805)

 

Resta da parlare di una condizione dell’anima che, ci sembra, non è ancora ben stata osservata: è quella che precede lo sviluppo delle grandi passioni, quando tutte le facoltà, giovani, attive, intatte ma inespresse, non si sono esercitate che su di sé, senza uno scopo e senza oggetto. Più i popoli progrediscono nella civilizzazione, più questa condizione d’indeterminatezza delle passioni aumenta; capita allora un fatto davvero triste: il gran numero d’esempi che si hanno sotto gli occhi, la quantità di libri che trattano dell’uomo e dei suoi sentimenti, rendono capaci, ma senza esperienza. Ci si sente disincantati senza aver gioito; ci sono ancora desideri, ma non si hanno più illusioni. L’immaginazione è ricca, abbondantemente meravigliosa, l’esistenza povera, secca e disillusa. Abitiamo, con il cuore gonfio, in un mondo vuoto; e senza aver pratica di nulla, si è disgustati di tutto.

È incredibile l’amarezza che questo stato d’animo diffonde nella vita; il cuore si rigira e si ripiega in cento modi, per impiegare delle forze che sente essergli inutili. Gli Antichi hanno conosciuto poco questa segreta inquietudine, questa acredine di passioni soffocate che fermentano tutte insieme: una grande vitalità politica, i giochi del ginnasio e del campo di Marte, gli affari del foro e della pubblica piazza, riempivano ogni loro momento, senza lasciare alcun posto al tedio del cuore.

D’altra parte essi non erano inclini alle esagerazioni, alle speranze, ai timori privi d’oggetto, alla instabilità delle idee e dei sentimenti, alla perpetua incostanza, che non è che un costante disgusto: attitudini che noi acquisiamo nell’intima frequentazione delle donne. Le donne, presso i popoli moderni, indipendentemente dalle passioni che ispirano, esercitano influenza anche su tutti gli altri sentimenti. Nel loro esistere esse manifestano un certo abbandono, che poi ci trasmettono; rendono meno deciso il nostro carattere d’uomini; e le nostre passioni, rese molli dalla confusione con le loro, assumono un po’ di quella irresoluta tenerezza.

Infine, i Greci e i Romani, non riuscendo ad estendere i loro sguardi al di là della vita, e non sospettando piaceri più perfetti di quelli di questo mondo, non erano portati, come noi, dal carattere della loro religione, alle fantasticherie e al desiderio. È soprattutto nel Genio del Cristianesimo che bisogna cercare la ragione di quella indeterminatezza dei sentimenti, frequente tra gli uomini moderni. Concepita per le nostre miserie e per i nostri bisogni, la religione cristiana ci offre incessantemente la rappresentazione dei dolori terreni e delle gioie celesti, e in questo modo essa ci ha messo nel cuore la sorgente dei mali presenti e di lontane speranze, da cui sgorgano inesauribili fantasticherie. Il cristiano si pensa sempre come un viaggiatore di passaggio quaggiù, in una valle di lacrime, il cui riposo può essere solo la tomba. Non è il mondo l’oggetto dei suoi voti, perché egli sa che l’uomo ha pochi giorni da vivere, e che questo oggetto gli sfuggirebbe velocemente.

Le persecuzioni che misero alla prova i primi fedeli accrebbero in essi questo disgusto per le cose della vita. L’invasione dei Barbari fece raggiungere il colmo, e lo spirito umano ricevette un’impronta di tristezza, e forse anche una lieve sfumatura di misantropia, che non si è mai completamente cancellata. Sorsero dovunque dei conventi, dove si ritirarono i disgraziati ingannati dal mondo, o le anime che preferivano ignorare certi sentimenti della vita, piuttosto che esporsi a vederli crudelmente traditi. Il frutto di quella vita monastica fu una melanconia prodigiosa; e questo sentimento, di natura un po’ confusa, unendosi a tutti gli altri, impresse loro il suo carattere d’incertezza. Ma al tempo stesso, per un effetto davvero notevole, quella medesima indeterminatezza in cui la melanconia immerge i sentimenti, è ciò che la fa rinascere; perché essa si genera in mezzo alle passioni, quando queste passioni, prive d’oggetto, consumano se stesse all’interno di un cuore solitario.

Sarebbe sufficiente aggiungere qualche sventura a questo stato indefinito delle passioni, perché possa servire da sfondo a un dramma ammirevole. È incredibile che gli scrittori moderni non abbiano ancora pensato a rappresentare questa singolare condizione dell’anima. Dal momento che ci mancano gli esempi, ci sarà permesso dare ai lettori un episodio come Atala, estratto dai nostri vecchi Natchez? Si tratta della vita di quel giovane René, a cui Chactas ha raccontato la sua storia. Si tratta, per così dire, di un pensiero; è la raffigurazione dell’indeterminatezza delle passioni, non mischiata ad alcuna avventura, tranne una grande sventura inviata per punire René, e per spaventare quei giovani che, abbandonandosi ad inutili fantasticherie, si sottraggono criminalmente ai doveri della società. L’episodio serve anche a provare la necessità del rifugio del chiostro per certe calamità della vita, che se fossero private della protezione della religione, porterebbero alla disperazione e alla morte. Così, il doppio fine della nostra opera, che consiste nel far vedere come il Genio del Cristianesimo abbia modificato le arti, la morale, l’intelligenza, il carattere, e persino le passioni dei popoli moderni, e di mostrare quale previdente saggezza abbia diretto le istituzioni cristiane; questo doppio fine, dicevamo, si trova egualmente realizzato nella storia di René.