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Chateaubriand, Autobiografia romantica

Chateaubriand: l’indeterminatezza delle passioni

Un po’ di autobiografia romantica

 

François René de CHATEAUBRIAND (1768-1848)

dalla Prefazione alla 1ª ed. di Atala (1801)

 

Ero ancora giovanissimo quando concepii l’idea di fare un’epopea dell’uomo naturale, o di raffigurare i costumi dei selvaggi, riconducendoli a qualche avvenimento noto. Dopo la scoperta dell’America non vidi soggetto più interessante, soprattutto per dei Francesi, del massacro della colonia dei Natchez in Louisiana, nel 1727. Tutte quelle tribù indiane che, dopo due secoli d’oppressione, cospiravano per restituire la libertà al Nuovo Mondo, mi parvero offrire alla penna un soggetto felice quasi quanto la conquista del Messico. Misi qualche frammento dell’opera sulla carta, ma mi accorsi subito che mancava la verosimiglianza dei colori, e che se volevo fare un quadro credibile, bisognava, come Omero, visitare i popoli che intendevo dipingere.

Nel 1789 parlai con il Signor de Malesherbes del mio progetto di andare in America. Ma, avendo al tempo stesso intenzione di dare al viaggio uno scopo pratico, formulai il proposito di scoprire quel passaggio via terra tanto cercato, e su cui lo stesso Cook aveva espresso dei dubbi. Partii, vidi le solitarie distese americane, e tornai con il piano per un altro viaggio, che doveva durare nove anni. Mi proponevo di attraversare tutto il continente dell’America settentrionale, di risalire in seguito le coste a nord della California, e di fare ritorno attraverso la baia di Hudson, girando sotto il polo. Se non fossi morto in quel secondo viaggio, avrei potuto fare delle scoperte importanti per la scienza e utili per il mio paese. Il Signor de Malesherbes s’incaricò di presentare i miei progetti al Governo; e fu in quell’occasione che egli udì i primi frammenti di questa piccola opera che oggi presento al pubblico. È ben noto ciò che divenne la Francia fino al momento in cui la Provvidenza ha fatto apparire uno di quegli uomini che essa, quando è stanca di punire, invia in segno di riconciliazione. Con addosso il sangue del mio unico fratello, di mia cognata, dell’illustre vecchio loro padre; dopo aver visto morire mia madre e un’altra sorella piena di talenti in seguito al trattamento subito in prigione, andai errando in terra straniera, dove il solo amico che avessi conservato si pugnalò tra le mie braccia.

 

Di tutti i miei manoscritti sull’America, non ho salvato che pochi frammenti, in particolare Atala, che non era se non un episodio dei Natchez. Atala fu scritta nel deserto e sotto le capanne dei selvaggi. Non so se il pubblico apprezzerà questa storia che esula dai tracciati consueti, e che presenta una natura e dei costumi del tutto estranei all’Europa. In Atala non ci sono avventure. È una specie di poema, in parte descrittivo, in parte drammatico: tutto si riduce alla vicenda di due amanti che camminano e discorrono nella solitudine; tutto si svolge nella rappresentazione dei turbamenti d’amore, in mezzo alla calma dei deserti e della religione. Ho dato a questo piccolo lavoro la forma più antica; esso è diviso in prologo, racconto e epilogo. Le parti principali del racconto hanno dei titoli, come i cacciatori, gli agricoltori, ecc.; così, nei primi secoli della Grecia, i rapsodi cantavano, sotto titoli diversi, i frammenti dell’Iliade e dell’Odissea. Non negherò di aver cercato un’estrema semplicità di sfondo e di stile, eccetto la parte descrittiva; è anche vero che, nelle descrizioni, c’è come un tono di sontuosa semplicità. Dire ciò che ho tentato, non vuol dire ciò che ho fatto. Da molto tempo non leggo che Omero e la Bibbia; è una fortuna se il lettore se ne accorge, e se sono riuscito a fondere con le tinte del deserto e con i particolari sentimenti del mio cuore, i colori di quei due grandi ed eterni modelli del bello e del vero.

Dirò anche che il mio scopo non è stato quello di strappare molte lacrime; mi sembra un errore pericoloso, avanzato come tanti altri da Voltaire, affermare che le opere migliori sono quelle che più fanno piangere. Ci sono drammi tali che nessuno vorrebbe esserne l’autore, e che straziano il cuore ben altrimenti dell’Eneide. Non si è grandi scrittori perché si mette l’anima alla tortura. Le vere lacrime sono quelle che fa scorrere una bella poesia; è necessario che vi si mescolino in egual misura ammirazione e dolore.

Quando Priamo dice ad Achille: [...] Giudica l’eccesso della mia sventura, dal momento che bacio la mano che ha ucciso i miei figli.

Quando Giuseppe esclama: Ego sum Joseph, frater vester, quem vendidistis in Aegyptum. Io sono Giuseppe, vostro fratello, che avete venduto per l’Egitto.

Ecco le sole lacrime che devono inumidire le corde della lira, addolcendone i suoni. Le muse sono femmine celesti che non sfigurano i loro lineamenti con smorfie; se piangono, è per il segreto disegno di rendersi più belle.

D’altra parte, non sono certo come Rousseau un entusiasta dei selvaggi; e per quanto forse io abbia da lamentarmi della società almeno quanto quel filosofo aveva da lodarla, non sono affatto convinto che la pura natura sia la cosa più bella del mondo. L’ho sempre trovata bruttissima, dovunque abbia avuto l’occasione di vederla. Ben lontano dal credere che l’uomo che pensa sia un animale depravato, ritengo che sia il pensiero a fare di un uomo un uomo. Con questa parola natura si è guastato tutto. Da qui quei fastidiosi dettagli di mille romanzi dove si descrivono persino i berretti da notte e le vestaglie da camera; da qui quegli infami drammi che sono venuti dopo i capolavori di Racine. Rappresentiamo la natura, ma quella bella: l’arte non deve occuparsi di imitare dei mostri.

Non parlerò qui del significato morale che ho voluto dare a Atala, poiché è facilmente scopribile e si trova riassunto nell’epilogo; dirò solo una parola dei miei personaggi.

Atala, come il Filottete, ha solo tre personaggi. Può darsi che nella donna che ho cercato di raffigurare si scopra un carattere davvero nuovo. Le contraddizioni del cuore umano non sono state ancora abbastanza sviluppate: meriterebbero d’esserlo, in quanto attengono all’antica tradizione di una originaria degradazione, e quindi aprono profonde prospettive su tutto ciò che vi è di grande e di misterioso nell’uomo e nella sua storia.

Chactas, l’amante di Atala, è un selvaggio, che si suppone nato con del talento, e che per più di metà è civilizzato, perché, non solo conosce le lingue viventi, ma anche quelle morte dell’Europa. Egli dunque deve esprimersi in uno stile composito, adatto alla linea lungo la quale cammina, tra società e natura. Ciò mi è stato di grande utilità, potendolo far parlare da selvaggio nella descrizione dei costumi, e da europeo nel dramma e nella narrazione. Senza di ciò avrei dovuto rinunciare all’opera: se mi fossi sempre servito di uno stile indiano, Atala sarebbe stato ebraico per il lettore.

Quanto al missionario, mi è sembrato di capire che quelli che fino ad ora hanno voluto rappresentare un prete, ne hanno fatto o uno scellerato fanatico, o una specie di filosofo. Padre Aubry non è nulla di tutto ciò. È un semplice cristiano che parla senza arrossire della croce, del sangue del suo divino maestro, della corruzione della carne, ecc., in una parola, è un prete. So che è difficile tratteggiare un simile carattere agli occhi di certa gente, senza toccare il ridicolo. Se non avessi commosso, avrei fatto ridere: agli altri il giudizio.

Dopo tutto, se si esamina ciò che ho fatto entrare in un quadro così piccolo, se si considera che non c’è una sola circostanza interessante delle abitudini dei selvaggi che io non abbia toccato, non un solo bell’effetto della natura, non un luogo bello della Nuova Francia che non abbia descritto; se si osserva come accanto al ritratto di un popolo di cacciatori io abbia messo quello completo di un popolo contadino, per mostrare i vantaggi della vita sociale su quella selvaggia; se si pone attenzione alle difficoltà a cui sono andato incontro nel tener vivo l’interesse drammatico tra due soli personaggi, sullo sfondo di tutto un lungo affresco di costumi, e di numerose descrizioni di paesaggi; se si nota infine che anche nella catastrofe ho rinunciato ad ogni soccorso, sforzandomi di riuscire, come gli antichi, solo con la forza del dialogo: queste considerazioni potrebbero forse valermi un po’ d’indulgenza da parte del lettore. Ancora una volta, non mi vanto di essere riuscito; ma si deve sempre essere grati a uno scrittore che si sforza di ricondurre la letteratura al gusto antico, oggigiorno troppo dimenticato.