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Tomasi, La metafora del labirinto

Tomasi di Lampedusa: un’anima di stanze segrete

Un viaggio metaforico di esplorazione

 

Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957)
da Il Gattopardo, cap. iv (1957)

 

[...] Tancredi voleva che Angelica conoscesse tutto il palazzo nel suo complesso inestricabile di foresterie vecchie e foresterie nuove, appartamenti di rappresentanza, cucine, cappelle, teatri, quadrerie, rimesse odorose di cuoi, Scuderie, serre afose, passaggi, anditi, scalette, terrazzine e porticati, e soprattutto di una serie di appartamenti smessi e disabitati, abbandonati da decenni e che formavano un intrico labirintico e misterioso. Tancredi non si rendeva conto (oppure si rendeva conto benissimo) che vi trascinava la ragazza verso il centro nascosto del ciclone sensuale, ed Angelica, in quel tempo, voleva ciò che Tancredi aveva deciso. Le scorribande attraverso il quasi illimitato edificio erano interminabili; si partiva come verso una terra incognita, ed incognita era davvero perché in parecchi di quegli appartamenti sperduti neppure Don Fabrizio aveva mai posto piede, il che del resto, gli era cagione di non piccolo compiacimento perché soleva dire che un palazzo del quale si conoscessero tutte le stanze non era degno di essere abitato. 1 due innamorati s’imbarcavano verso Citera su una nave fatta di camere cupe e di camere solatie, di ambienti sfarzosi o miserabili, vuoti o affollati di relitti di mobilio eterogeneo. Partivano accompagnati da mademoiselle Dombreuil o da Cavriaghi (padre Pirrone con la sagacia del suo Ordine si rifiutò sempre a farlo), talvolta da tutti e due; la decenza esteriore era salva. Ma nel palazzo non era difficile di fuorviare chi volesse seguirvi: bastava infilare un corridoio (ve ne erano lunghissimi, stretti e tortuosi con finestrine grigliate che non si potevano percorrere senza angoscia), svoltare per un ballatoio, salire una scaletta complice, e i due ragazzi erano lontano, invisibili, soli come su un’isola deserta. Restavano a guardarli soltanto un ritratto a pastello sfumato via e che l’inesperienza del pittore aveva creato senza sguardo o su un soffitto obliterato una pastorella subito consenziente. Cavriaghi, del resto, si stancava presto ed appena trovava sulla propria rotta un ambiente conosciuto o una scaletta che scendeva in giardino se la svignava, tanto per far piacere all’amico che per andare a sospirare guardando le gelide mani di Concetta. La governante resisteva piú a lungo, ma non per sempre! per qualche tempo si udivano sempre, piú lontani, i suoi appelli mai corrisposti: “Tancrède, Angelicà, où étes‑vous?” Poi tutto si richiudeva nel silenzio, striato solo dal galoppo dei topi al di sopra dei soffitti, dallo strisciare di una lettera centenaria dimenticata che il vento faceva errare sul pavimento: pretesti per, desiderate paure, per un aderire rassicurante delle membra. E l’Eros era sempre con loro, malizioso e tenace, il gioco in cui trascinava i due fidanzati era pieno di azzardi e di malia. Tutti e due vicinissimi ancora all’infanzia prendevano piacere al gioco in sé, godevano nell’inseguirsi, nel perdersi, nel ritrovarsi; ma quando si erano raggiunti i loro sensi aguzzati prendevano il sopravvento e le cinque dita di lui che s’incastravano nelle dita di lei, col gesto caro ai sensuali indecisi, il soffregamento soave dei polpastrelli sulle vene pallide del dorso, turbava tutto il loro essere, preludeva a piú insinuate carezze.

Una volta lei si era nascosta dietro un enorme quadro posato per terra; e per un po’ “Arturo Corbera all’assedio di Antiochia” protesse l’ansia speranzosa della ragazza; ma quando fu scoperta, col sorriso intriso di ragnatele e le mani velate di polvere, venne avvinghiata e stretta, e rimase una eternità a dire “No, Tancredi, no,” diniego che era un invito perché di fatto lui non faceva altro che fissare nei verdissimi occhi di lei l’azzurro dei propri. Una volta in una mattinata luminosa e fredda essa tremava nella veste ancora estiva; su di un divano coperto di stoffa a brandelli lui la strinse a sé per riscaldarla; il fiato odoroso di lei gli agitava i capelli sulla fronte; e furono momenti estatici e penosi, durante i quali il desiderio diventava tormento, i freni a loro volta, delizia.

Negli appartamenti abbandonati le camere non avevano né fisionomia precisa né nome; e come gli scopritori del Nuovo Mondo essi battezzavano gli ambienti attraversati col nome di ciò che in essi era accaduto a loro: una vasta stanza da letto nella cui alcova stava lo spettro di un letto adorno sul baldacchino da scheletri di penne di struzzo, fu ricordata poi come la “camera delle pene”; una scaletta dai gradini di lavagna lisi e sbrecciati venne chiamata da Tancredi “la scala dello scivolone felice.” Piú d’una volta non seppero piú dove erano: a furia di giravolte, di ritorni, d’inseguimenti, di lunghe soste riempite di mormorii e contatti perdevano l’orientamento e dovevano sporgersi da una finestra senza vetri per comprendere dall’aspetto di un cortile, dalla prospettiva del giardino in quale ala del palazzo si trovassero. Talvolta però non si raccapezzavano lo stesso perché la finestra guardava non. su uno dei grandi cortili ma su di un cortiletto interno, anonimo anch’esso e mai intravisto, contrassegnato soltanto dalla carogna di un gatto o dalla solita manciata di pasta al pomidoro non si sa mai se vomitata o buttata via; e da un’altra finestra li scorgevano gli occhi di una cameriera pensionata. Un pomeriggio rinvennero dentro un cassettone con tre gambe quattro carillons, di quelle scatole per musica delle quali si dilettava l’artificiosa ingenuità del Settecento. Tre di esse, sommerse nella polvere e nelle ragnatele, rimasero mute; ma la quarta, piú recente, meglio chiusa nello scrignetto di legno scuro, mise in moto il proprio cilindro di rame irto di punte e le linguette di acciaio sollevate fecero a un tratto udire una musichetta gracile, tutta in acuti argentini: il famoso “Carnevale di Venezia”; ed essi ritmarono i loro baci in accordo con quei suoni di giocondità disillusa; e quando la loro stretta si allentò si sorpresero nell’accorgersi che i suoni erano cessati da tempo e che le loro carezze non avevano seguito altra traccia che quella del ricordo di quel fantasma di musica.

Una volta la sorpresa fu di colore diverso. In una stanza della foresteria vecchia si avvidero di una porta nascosta da un armadio; la serratura centenaria cedette presto a quelle dita che godevano nell’intrecciarsi e soffregarsi per forzarla: dietro, una lunga scala stretta si svolgeva in soffici curve con i suoi scalini di marino rosa. In cima un’altra porta, aperta, e con spesse imbottiture disfatte, e poi un appartamentino vezzoso e strambo, sei piccole camere raccolte attorno a un salotto di mediocre grandezza, tutte e il salotto stesso con pavimenti di bianchissimo marmo, un po’ in pendio, declinanti verso una canaletta laterale. Sui soffitti bassi bizzarri stucchi colorati che l’umidità aveva fortunatamente resi incomprensibili; sulle pareti grandi specchi attonici, appesi troppo in giú, uno fracassato da un colpo quasi nel centro, ciascuno col contorto reggi‑candela del Settecento; le finestre davano su un cortiletto segregato, una specie di pozzo cieco e sordo che lasciava entrare una luce grigia e sul quale non spuntava nessun’altra apertura. In ogni camera ed anche nel salotto ampi, troppo ampi, divani che mostravano sulle inchiodature tracce di una seta strappata via; appoggiatoi maculati; sui caminetti, delicati, intricati intagli nel marmo, nudi parossistici, martoriati, però, mutilati da martellate rabbiose. L’umidità aveva macchiato le pareti in alto e, sembrava almeno, in basso ad altezza d’uomo, dove essa aveva assunto configurazioni strane, tinte cupe, inconsueti rilievi. Tancredi, inquieto, non volle che Angelica toccasse un armadio a muro del salotto; lo schiuse lui stesso. Era profondissimo e conteneva bizzarre cose: rotolini di corda di seta, sottile; scatolucce di argento impudicamente ornate con sul fondo esterno etichette minuscole recanti in eleganti grafie indicazioni oscure, come le sigle che si leggevano sui vasi delle farmacie: “Estr. catch.” “Tirch-stram.” “Partopp.”; bottigliette dal contenuto evaporato; un rotolo di stoffa sudicia, ritto in un angolo; dentro vi era un fascio di piccole fruste, di scudisci in nervo di bue, alcuni con manici in argento, altri rivestiti sino a metà da una graziosa seta molto vecchia, bianca a righine azzurre, sulla quale si scorgevano tre file di macchie nerastre; attrezzini metallici inspiegabili. Tancredi ebbe paura, anche di sé stesso comprese di aver raggiunto il nucleo segreto centro d’irradiazione delle irrequietudini carnali del palazzo. “Andiamo via, cara, qui non c’è niente d’interessante.” Richiusero bene la porta, ridiscesero in silenzio la scala, rimisero a posto l’armadio; tutto il giorno poi i baci di Tancredi furono lievi, come dati in sogno ed  in espiazione.

Dopo il Gattopardo, a dire il vero, la frusta sembrava essere l’oggetto piú frequente a Donnafugata. L’indomani della loro scoperta dell’appartamentino enigmatico i due innamorati s’imbatterono in un altro frustino, di carattere ben diverso. Questo, in verità, non era negli appartamenti ignorati ma anzi in quello venerato detto del Duca-Santo, il piú remoto del palazzo. Lì, a metà del Seicento un Salina si era ritirato come in un convento privato ed aveva fatto penitenza e predisposto il proprio itinerario verso il Cielo. Erano stanze ristrette, basse di soffitto, con l’ammattonato di umile creta, con le pareti candide a calce, simili a quelle dei contadini piú derelitti. L’ultima dava su un poggiuolo dal quale si dominava la distesa gialla dei feudi accavallati ai feudi, tutti immersi in una triste luce. Su di una parete un enorme Crocifisso piú grande del vero: la testa del Dio martoriato toccava il soffitto, i piedi sanguinanti sfioravano il pavimento: la piaga sul costato sembrava una bocca cui la brutalità avesse vietato di pronunziare le parole della salvezza ultima. Accanto al cadavere divino pendeva giù da un chiodo una frusta col manico corto dal quale si dipartivano sei strisce di cuoio ormai indurito, terminanti in sei palle di piombo grosse come nocciole. Era la “disciplina” del Duca-Santo. In quella stanza Giuseppe Corbera, duca di Salina, si fustigava solo, al cospetto del proprio Dio e del proprio feudo, e doveva sembrargli che le gocce del sangue suo andassero a piovere sulle terre per redimerle; nella sua pia esaltazione doveva sembrargli che solo mediante questo battesimo espiatorio esse divenissero realmente sue, sangue del suo sangue, carne della sua carne, come si dice. Invece le zolle erano sfuggite e molte di quelle che da lassú si vedevano appartenevano ad altri, a don Calogero anche; a don Calogero, cioè ad Angelica, quindi al loro futuro figlio. L’evidenza del riscatto attraverso la bellezza, parallelo all’altro riscatto attraverso il sangue diede a Tancredi come una vertigine. Angelica inginocchiata baciava i piedi trafitti di Cristo. “Vedi, tu sei come quell’arnese lí, servi agli stessi scopi.” E mostrava la disciplina; e poiché Angelica non capiva ed alzato il capo sorrideva, bella ma vacua, lui si chinò e cosí genuflessa com’era le diede un aspro bacio che la fece gemere perché le ferí il labbro e le raschiò il palato.

I due passavano cosí quelle giornate in vagabondaggi trasognati; scoprirono inferni che l’amore poi redimeva, rinvenivano paradisi trascurati che quello stesso amore dopo profanava; il pericolo di far cessare il giuoco per incassarne subito la posta si acuiva, urgeva per tutti e due; alla fine non cercavano piú, ma se ne andavano assorti nelle stanze piú isolate, quelle dalle quali nessun grido avrebbe potuto giungere a nessuno; ma grida non vi sarebbero state, solo invocazioni e singulti bassi. Invece se ne stavano lí tutti e due stretti ed innocenti, a compatirsi l’un l’altro. Le piú pericolose per loro erano le stanze della foresteria vecchia: appartate, meglio curate, ciascuna col suo bel letto dalle materassa arrotolate che un colpo della mano avrebbe bastato a distendere... Un giorno, non il cervello di Tancredi che in questo non aveva nulla da dire, ma tutto il suo sangue aveva deciso di finirla: quella mattina Angelica, da quella bella canaglia che era, gli aveva detto: “Sono la tua novizia,” richiamando alla mente di lui con la chiarezza di un invito, il primo incontro di desideri corso fra loro; e già la donna resa scarmigliata si offriva, già il maschio stava per sopraffare l’uomo, quando il boato del campanone della chiesa piombò quasi a picco sui loro corpi giacenti, aggiunse il proprio fremito agli altri; le bocche compenetrate dovettero disgiungersi per un sorriso. Si ripresero; e l’indomani Tancredi doveva partire.

   Quelli furono i giorni migliori della vita di Tancredi e di quella di Angelica, vite che dovevano poi essere tanto variegate, tanto peccaminose sull’inevitabile sfondo di dolore. Ma essi allora non lo sapevano ed inseguivano un avvenire che stimavano più concreto benché poi risultasse formato di fumo e di vento soltanto. Quando furono divenuti vecchi ed inutilmente saggi i loro pensieri ritornavano a quei giorni con rimpianto insistente: erano stati i giorni del desiderio sempre presente perché sempre vinto, dei letti, molti, che si erano offerti e che erano stati respinti, dello stimolo sensuale che appunto perché inibito si era, un attimo, sublimato in rinunzia, cioè in vero amore. Quei giorni furono la preparazione a quel loro matrimonio che, anche eroticamente, fu mal riuscito; una preparazione però che si atteggiò in un insieme a sé stante, squisito e breve: come quelle sinfonie che sopravvivono alle opere dimenticate e che contengono, accennate e con la loro giocosità velata di pudore, tutte quelle arie che poi nell’opera dovevano essere sviluppate senza destrezza, e fallire. [...]