95 Quel fugge per la selva, e seco porta la quasi morta vecchia di paura per valli e monti e per via dritta e torta, per fossi e per pendici alla ventura. Ma il parlar di costei sì non m’importa, ch’io non debba d’Orlando aver più cura, ch’alla sua sella ciò ch’era di guasto, tutto ben racconciò sanza contrasto.
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96 Rimontò sul destriero, e ste’ gran pezzo a riguardar che ‘l Saracin tornasse. Nol vedendo apparir, volse da sezzo egli esser quel ch’a ritrovarlo andasse; ma, come costumato e bene avezzo, non prima il paladin quindi si trasse, che con dolce parlar grato e cortese buona licenza dagli amanti prese.
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97 Zerbin di quel partir molto si dolse; di tenerezza ne piangea Issabella: voleano ir seco, ma il conte non volse lor compagnia, ben ch’era e buona e bella; e con questa ragion se ne disciolse, ch’a guerrier non è infamia sopra quella che, quando cerchi un suo nimico, prenda compagno che l’aiuti e che ‘l difenda.
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98 Li pregò poi, che quando il Saracino, prima ch’in lui, si riscontrasse in loro, gli dicesser ch’Orlando avria vicino ancor tre giorni per quel tenitoro; ma dopo, che sarebbe il suo camino verso le ‘nsegne dei bei gigli d’oro, per esser con l’esercito di Carlo, acciò, volendol, sappia onde chiamarlo.
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99 Quelli promiser farlo volentieri, e questa e ogn’altra cosa al suo comando. Feron camin diverso i cavallieri, di qua Zerbino, e di là il conte Orlando. Prima che pigli il conte altri sentieri, all’arbor tolse, e a sé ripose il brando; e dove meglio col pagan pensosse di potersi incontrare, il destrier mosse.
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100 Lo strano corso che tenne il cavallo del Saracin pel bosco senza via, fece ch’Orlando andò duo giorni in fallo, né lo trovò, né poté averne spia. Giunse ad un rivo che parea cristallo, ne le cui sponde un bel pratel fioria, di nativo color vago e dipinto, e di molti e belli arbori distinto.
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101 Il merigge facea grato l’orezzo al duro armento ed al pastore ignudo; sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo, che la corazza avea, l’elmo e lo scudo. Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo; e v’ebbe travaglioso albergo e crudo, e più che dir si possa empio soggiorno, quell’infelice e sfortunato giorno.
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102 Volgendosi ivi intorno, vide scritti molti arbuscelli in su l’ombrosa riva. Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti, fu certo esser di man de la sua diva. Questo era un di quei lochi già descritti, ove sovente con Medor veniva da casa del pastore indi vicina la bella donna del Catai regina.
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103 Angelica e Medor con cento nodi legati insieme, e in cento lochi vede. Quante lettere son, tanti son chiodi coi quali Amore il cor gli punge e fiede. Va col pensier cercando in mille modi non creder quel ch’al suo dispetto crede: ch’altra Angelica sia, creder si sforza, ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.
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104 Poi dice: - Conosco io pur queste note: di tal’io n’ho tante vedute e lette. Finger questo Medoro ella si puote: forse ch’a me questo cognome mette. - Con tali opinion dal ver remote usando fraude a sé medesmo, stette ne la speranza il malcontento Orlando, che si seppe a se stesso ir procacciando.
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105 Ma sempre più raccende e più rinuova, quanto spenger più cerca, il rio sospetto: come l’incauto augel che si ritrova in ragna o in visco aver dato di petto, quanto più batte l’ale e più si prova di disbrigar, più vi si lega stretto. Orlando viene ove s’incurva il monte a guisa d’arco in su la chiara fonte.
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106 Aveano in su l’entrata il luogo adorno coi piedi storti edere e viti erranti. Quivi soleano al più cocente giorno stare abbracciati i duo felici amanti. V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno, più che in altro dei luoghi circostanti, scritti, qual con carbone e qual con gesso, e qual con punte di coltelli impresso.
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107 Il mesto conte a piè quivi discese; e vide in su l’entrata de la grotta parole assai, che di sua man distese Medoro avea, che parean scritte allotta. Del gran piacer che ne la grotta prese, questa sentenza in versi avea ridotta. Che fosse culta in suo linguaggio io penso; ed era ne la nostra tale il senso:
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108 - Liete piante, verdi erbe, limpide acque, spelunca opaca e di fredde ombre grata, dove la bella Angelica che nacque di Galafron, da molti invano amata, spesso ne le mie braccia nuda giacque; de la commodità che qui m’è data, io povero Medor ricompensarvi d’altro non posso, che d’ognor lodarvi:
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109 e di pregare ogni signore amante, e cavallieri e damigelle, e ognuna persona, o paesana o viandante, che qui sua volontà meni o Fortuna; ch’all’erbe, all’ombre, all’antro, al rio, alle piante dica: benigno abbiate e sole e luna, e de le ninfe il coro, che proveggia che non conduca a voi pastor mai greggia. -
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110 Era scritto in arabico, che ‘l conte intendea così ben come latino: fra molte lingue e molte ch’avea pronte, prontissima avea quella il paladino; e gli schivò più volte e danni ed onte, che si trovò tra il popul saracino: ma non si vanti, se già n’ebbe frutto; ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto.
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111 Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto quello infelice, e pur cercando invano che non vi fosse quel che v’era scritto; e sempre lo vedea più chiaro e piano: ed ogni volta in mezzo il petto afflitto stringersi il cor sentia con fredda mano. Rimase al fin con gli occhi e con la mente fissi nel sasso, al sasso indifferente.
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112 Fu allora per uscir del sentimento sì tutto in preda del dolor si lassa. Credete a chi n’ha fatto esperimento, che questo è ‘l duol che tutti gli altri passa. Caduto gli era sopra il petto il mento, la fronte priva di baldanza e bassa; né poté aver (che ‘l duol l’occupò tanto) alle querele voce, o umore al pianto.
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113 L’impetuosa doglia entro rimase, che volea tutta uscir con troppa fretta. Così veggiàn restar l’acqua nel vase, che largo il ventre e la bocca abbia stretta; che nel voltar che si fa in su la base, l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta, e ne l’angusta via tanto s’intrica, ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica.
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114 Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come possa esser che non sia la cosa vera: che voglia alcun così infamare il nome de la sua donna e crede e brama e spera, o gravar lui d’insopportabil some tanto di gelosia, che se ne pera; ed abbia quel, sia chi si voglia stato, molto la man di lei bene imitato.
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115 In così poca, in così debol speme sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco; indi al suo Brigliadoro il dosso preme, dando già il sole alla sorella loco. Non molto va, che da le vie supreme dei tetti uscir vede il vapor del fuoco, sente cani abbaiar, muggiare armento: viene alla villa, e piglia alloggiamento.
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116 Languido smonta, e lascia Brigliadoro a un discreto garzon che n’abbia cura; altri il disarma, altri gli sproni d’oro gli leva, altri a forbir va l’armatura. Era questa la casa ove Medoro giacque ferito, e v’ebbe alta avventura. Corcarsi Orlando e non cenar domanda, di dolor sazio e non d’altra vivanda.
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117 Quanto più cerca ritrovar quiete, tanto ritrova più travaglio e pena; che de l’odiato scritto ogni parete, ogni uscio, ogni finestra vede piena. Chieder ne vuol: poi tien le labra chete; che teme non si far troppo serena, troppo chiara la cosa che di nebbia cerca offuscar, perché men nuocer debbia.
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118 Poco gli giova usar fraude a se stesso; che senza domandarne, è chi ne parla. Il pastor che lo vede così oppresso da sua tristizia, e che voria levarla, l’istoria nota a sé, che dicea spesso di quei duo amanti a chi volea ascoltarla, ch’a molti dilettevole fu a udire, gl’incominciò senza rispetto a dire:
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119 come esso a prieghi d’Angelica bella portato avea Medoro alla sua villa, ch’era ferito gravemente; e ch’ella curò la piaga, e in pochi dì guarilla: ma che nel cor d’una maggior di quella lei ferì Amor; e di poca scintilla l’accese tanto e sì cocente fuoco, che n’ardea tutta, e non trovava loco:
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120 e sanza aver rispetto ch’ella fusse figlia del maggior re ch’abbia il Levante, da troppo amor costretta si condusse a farsi moglie d’un povero fante. All’ultimo l’istoria si ridusse, che ‘l pastor fe’ portar la gemma inante, ch’alla sua dipartenza, per mercede del buono albergo, Angelica gli diede.
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121 Questa conclusion fu la secure che ‘l capo a un colpo gli levò dal collo, poi che d’innumerabil battiture si vide il manigoldo Amor satollo. Celar si studia Orlando il duolo; e pure quel gli fa forza, e male asconder pòllo: per lacrime e suspir da bocca e d’occhi convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi.
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122 Poi ch’allargare il freno al dolor puote (che resta solo e senza altrui rispetto), giù dagli occhi rigando per le gote sparge un fiume di lacrime sul petto: sospira e geme, e va con spesse ruote di qua di là tutto cercando il letto; e più duro ch’un sasso, e più pungente che se fosse d’urtica, se lo sente.
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123 In tanto aspro travaglio gli soccorre che nel medesmo letto in che giaceva, l’ingrata donna venutasi a porre col suo drudo più volte esser doveva. Non altrimenti or quella piuma abborre, né con minor prestezza se ne leva, che de l’erba il villan che s’era messo per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso.
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124 Quel letto, quella casa, quel pastore immantinente in tant’odio gli casca, che senza aspettar luna, o che l’albore che va dinanzi al nuovo giorno nasca, piglia l’arme e il destriero, ed esce fuore per mezzo il bosco alla più oscura frasca; e quando poi gli è aviso d’esser solo, con gridi ed urli apre le porte al duolo.
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125 Di pianger mai, mai di gridar non resta; né la notte né ‘l dì si dà mai pace. Fugge cittadi e borghi, e alla foresta sul terren duro al discoperto giace. Di sé si meraviglia ch’abbia in testa una fontana d’acqua sì vivace, e come sospirar possa mai tanto; e spesso dice a sé così nel pianto:
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126 - Queste non son più lacrime, che fuore stillo dagli occhi con sì larga vena. Non suppliron le lacrime al dolore: finir, ch’a mezzo era il dolore a pena. Dal fuoco spinto ora il vitale umore fugge per quella via ch’agli occhi mena; ed è quel che si versa, e trarrà insieme e ‘l dolore e la vita all’ore estreme.
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127 Questi ch’indizio fan del mio tormento, sospir non sono, né i sospir sono tali. Quelli han triegua talora; io mai non sento che ‘l petto mio men la sua pena esali. Amor che m’arde il cor, fa questo vento, mentre dibatte intorno al fuoco l’ali. Amor, con che miracolo lo fai, che ‘n fuoco il tenghi, e nol consumi mai?
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128 Non son, non sono io quel che paio in viso: quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra; la sua donna ingratissima l’ha ucciso: sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra. Io son lo spirto suo da lui diviso, ch’in questo inferno tormentandosi erra, acciò con l’ombra sia, che sola avanza, esempio a chi in Amor pone speranza. -
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129 Pel bosco errò tutta la notte il conte; e allo spuntar de la diurna fiamma lo tornò il suo destin sopra la fonte dove Medoro isculse l’epigramma. Veder l’ingiuria sua scritta nel monte l’accese sì, ch’in lui non restò dramma che non fosse odio, rabbia, ira e furore; né più indugiò, che trasse il brando fuore.
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130 Tagliò lo scritto e ‘l sasso, e sin al cielo a volo alzar fe’ le minute schegge. Infelice quell’antro, ed ogni stelo in cui Medoro e Angelica si legge! Così restar quel dì, ch’ombra né gielo a pastor mai non daran più, né a gregge: e quella fonte, già si chiara e pura, da cotanta ira fu poco sicura;
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131 che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle non cessò di gittar ne le bell’onde, fin che da sommo ad imo sì turbolle che non furo mai più chiare né monde. E stanco al fin, e al fin di sudor molle, poi che la lena vinta non risponde allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira, cade sul prato, e verso il ciel sospira.
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132 Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba, e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto. Senza cibo e dormir così si serba, che ‘l sole esce tre volte e torna sotto. Di crescer non cessò la pena acerba, che fuor del senno al fin l’ebbe condotto. Il quarto dì, da gran furor commosso, e maglie e piastre si stracciò di dosso.
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133 Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo, lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo: l’arme sue tutte, in somma vi concludo, avean pel bosco differente albergo. E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo l’ispido ventre e tutto ‘l petto e ‘l tergo; e cominciò la gran follia, sì orrenda, che de la più non sarà mai ch’intenda.
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134 In tanta rabbia, in tanto furor venne, che rimase offuscato in ogni senso. Di tor la spada in man non gli sovenne; che fatte avria mirabil cose, penso. Ma né quella, né scure, né bipenne era bisogno al suo vigore immenso. Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse, ch’un alto pino al primo crollo svelse:
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135 e svelse dopo il primo altri parecchi, come fosser finocchi, ebuli o aneti; e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi, di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti. Quel ch’un ucellator che s’apparecchi il campo mondo, fa, per por le reti, dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche, facea de cerri e d’altre piante antiche.
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136 I pastor che sentito hanno il fracasso, lasciando il gregge sparso alla foresta, chi di qua, chi di là, tutti a gran passo vi vengono a veder che cosa è questa. Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo vi potria la mia istoria esser molesta; ed io la vo’ più tosto diferire, che v’abbia per lunghezza a fastidire.
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CANTO VENTIQUATTRESIMO
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1 Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale; che non è in somma amor, se non insania, a giudizio de’ savi universale: e se ben come Orlando ognun non smania, suo furor mostra a qualch’altro segnale. E quale è di pazzia segno più espresso che, per altri voler, perder se stesso?
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2 Vari gli effetti son, ma la pazzia è tutt’una però, che li fa uscire. Gli è come una gran selva, ove la via conviene a forza, a chi vi va, fallire: chi su, chi giù, chi qua, chi là travia. Per concludere in somma, io vi vo’ dire: a chi in amor s’invecchia, oltr’ogni pena, si convengono i ceppi e la catena.
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3 Ben mi si potria dir: - Frate, tu vai l’altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo. - Io vi rispondo che comprendo assai, or che di mente ho lucido intervallo; ed ho gran cura (e spero farlo ormai) di riposarmi e d’uscir fuor di ballo: ma tosto far, come vorrei, nol posso; che ‘l male è penetrato infin all’osso.
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4 Signor, ne l’altro canto io vi dicea che ‘l forsennato e furioso Orlando trattesi l’arme e sparse al campo avea, squarciati i panni, via gittato il brando, svelte le piante, e risonar facea i cavi sassi e l’alte selve; quando alcun’ pastori al suon trasse in quel lato lor stella, o qualche lor grave peccato.
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