Ariosto, "Orlando furioso" 18-19

Categoria: Programma di 4ª
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Pubblicato Giovedì, 20 Febbraio 2014 16:09
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Ariosto: Cloridano - Medoro - Angelica

Due grandi storie d’amore

 

Ludovico ARIOSTO (1474-1533)

Orlando Furioso, canti XVIII¸ 164 – XIX, 42

 

Nota metrica. Ottave di endecasillabi, con rime ABABABCC.

 

164
Tutta la notte per gli alloggiamenti
dei malsicuri Saracini oppressi
si versan pianti, gemiti e lamenti,
ma quanto più si può, cheti e soppressi.
Altri, perché gli amici hanno e i parenti
lasciati morti, ed altri per se stessi,
che son feriti, e con disagio stanno:
ma più è la tema del futuro danno.

 

165
Duo Mori ivi fra gli altri si trovaro,
d’oscura stirpe nati in Tolomitta;
de’ quai l’istoria, per esempio raro
di vero amore, è degna esser descritta.
Cloridano e Medor si nominaro,
ch’alla fortuna prospera e alla afflitta
aveano sempre amato Dardinello,
ed or passato in Francia il mar con quello.

 

166
Cloridan, cacciator tutta sua vita,
di robusta persona era ed isnella:
Medoro avea la guancia colorita
e bianca e grata ne la età novella;
e fra la gente a quella impresa uscita
non era faccia più gioconda e bella:
occhi avea neri, e chioma crespa d’oro:
angel parea di quei del sommo coro.

 

167
Erano questi duo sopra i ripari
con molti altri a guardar gli alloggiamenti,
quando la Notte fra distanze pari
mirava il ciel con gli occhi sonnolenti.
Medoro quivi in tutti i suoi parlari
non può far che ‘l signor suo non rammenti,
Dardinello d’Almonte, e che non piagna
che resti senza onor ne la campagna.

 

168
Volto al compagno, disse: - O Cloridano,
io non ti posso dir quanto m’incresca
del mio signor, che sia rimaso al piano,
per lupi e corbi, ohimé! troppo degna esca.
Pensando come sempre mi fu umano,
mi par che quando ancor questa anima esca
in onor di sua fama, io non compensi
né sciolga verso lui gli oblighi immensi.

 

169
Io voglio andar, perché non stia insepulto
in mezzo alla campagna, a ritrovarlo:
e forse Dio vorrà ch’io vada occulto
là dove tace il campo del re Carlo.
Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto
ch’io vi debba morir, potrai narrarlo:
che se Fortuna vieta sì bell’opra,
per fama almeno il mio buon cor si scuopra. -

 

170
Stupisce Cloridan, che tanto core,
tanto amor, tanta fede abbia un fanciullo:
e cerca assai, perché gli porta amore,
di fargli quel pensiero irrito e nullo;
ma non gli val, perch’un sì gran dolore
non riceve conforto né trastullo.
Medoro era disposto o di morire,
o ne la tomba il suo signor coprire.

 

171
Veduto che nol piega e che nol muove,
Cloridan gli risponde: - E verrò anch’io,
anch’io vuo’ pormi a sì lodevol pruove,
anch’io famosa morte amo e disio.
Qual cosa sarà mai che più mi giove,
s’io resto senza te, Medoro mio?
Morir teco con l’arme è meglio molto,
che poi di duol, s’avvien che mi sii tolto. -

 

172
Così disposti, messero in quel loco
le successive guardie, e se ne vanno.
Lascian fosse e steccati, e dopo poco
tra’ nostri son, che senza cura stanno.
Il campo dorme, e tutto è spento il fuoco,
perché dei Saracin poca tema hanno.
Tra l’arme e’ carriaggi stan roversi,
nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi.

 

173
Fermossi alquanto Cloridano, e disse:
- Non son mai da lasciar l’occasioni.
Di questo stuol che ‘l mio signor trafisse,
non debbo far, Medoro, occisioni?
Tu, perché sopra alcun non ci venisse,
gli occhi e l’orecchi in ogni parte poni;
ch’io m’offerisco farti con la spada
tra gli nimici spaziosa strada. -

 

174
Così disse egli, e tosto il parlar tenne,
ed entrò dove il dotto Alfeo dormia,
che l’anno inanzi in corte a Carlo venne,
medico e mago e pien d’astrologia:
ma poco a questa volta gli sovenne;
anzi gli disse in tutto la bugia.
Predetto egli s’avea, che d’anni pieno
dovea morire alla sua moglie in seno:

 

175
ed or gli ha messo il cauto Saracino
la punta de la spada ne la gola.
Quattro altri uccide appresso all’indovino,
che non han tempo a dire una parola:
menzion dei nomi lor non fa Turpino,
e ‘l lungo andar le lor notizie invola:
dopo essi Palidon da Moncalieri,
che sicuro dormia fra duo destrieri.

 

176
Poi se ne vien dove col capo giace
appoggiato al barile il miser Grillo:
avealo voto, e avea creduto in pace
godersi un sonno placido e tranquillo.
Troncògli il capo il Saracino audace:
esce col sangue il vin per uno spillo,
di che n’ha in corpo più d’una bigoncia;
e di ber sogna, e Cloridan lo sconcia.

 

177
E presso a Grillo, un Greco ed un Tedesco
spenge in dui colpi, Andropono e Conrado.
che de la notte avean goduto al fresco
gran parte, or con la tazza, ora col dado:
felici, se vegghiar sapeano a desco
fin che de l’Indo il sol passassi il guado.
Ma non potria negli uomini il destino,
se del futuro ognun fosse indovino.

 

178
Come impasto leone in stalla piena,
che lunga fame abbia smacrato e asciutto,
uccide, scanna, mangia, a strazio mena
l’infermo gregge in sua balìa condutto;
così il crudel pagan nel sonno svena
la nostra gente, e fa macel per tutto.
La spada di Medoro anco non ebe;
ma si sdegna ferir l’ignobil plebe.

 

179
Venuto era ove il duca di Labretto
con una dama sua dormia abbracciato;
e l’un con l’altro si tenea sì stretto,
che non saria tra lor l’aere entrato.
Medoro ad ambi taglia il capo netto.
Oh felice morire! oh dolce fato!
che come erano i corpi, ho così fede
ch’andar l’alme abbracciate alla lor sede.

 

180
Malindo uccise e Ardalico il fratello,
che del conte di Fiandra erano figli;
e l’uno e l’altro cavallier novello
fatto avea Carlo, e aggiunto all’arme i gigli,
perché il giorno amendui d’ostil macello
con gli stocchi tornar vide vermigli:
e terre in Frisa avea promesso loro,
e date avria; ma lo vietò Medoro.

 

181
Gl’insidiosi ferri eran vicini
ai padiglioni che tiraro in volta
al padiglion di Carlo i paladini,
facendo ognun la guardia la sua volta;
quando da l’empia strage i Saracini
trasson le spade, e diero a tempo volta;
ch’impossibil lor par, tra sì gran torma,
che non s’abbia a trovar un che non dorma.

 

182
E ben che possan gir di preda carchi,
salvin pur sé, che fanno assai guadagno.
Ove più creda aver sicuri i varchi
va Cloridano, e dietro ha il suo compagno.
Vengon nel campo, ove fra spade ed archi
e scudi e lance in un vermiglio stagno
giaccion poveri e ricchi, e re e vassalli,
e sozzopra con gli uomini i cavalli.

 

183
Quivi dei corpi l’orrida mistura,
che piena avea la gran campagna intorno,
potea far vaneggiar la fedel cura
dei duo compagni insino al far del giorno,
se non traea fuor d’una nube oscura,
a’ prieghi di Medor, la Luna il corno.
Medoro in ciel divotamente fisse
verso la Luna gli occhi, e così disse:

 

184
- O santa dea, che dagli antiqui nostri
debitamente sei detta triforme;
ch’in cielo, in terra e ne l’inferno mostri
l’alta bellezza tua sotto più forme,
e ne le selve, di fere e di mostri
vai cacciatrice seguitando l’orme;
mostrami ove ‘l mio re giaccia fra tanti,
che vivendo imitò tuoi studi santi. -

 

185
La luna a quel pregar la nube aperse
(o fosse caso o pur la tanta fede),
bella come fu allor ch’ella s’offerse,
e nuda in braccio a Endimion si diede.
Con Parigi a quel lume si scoperse
l’un campo e l’altro; e ‘l monte e ‘l pian si vede:
si videro i duo colli di lontano,
Martire a destra, e Lerì all’altra mano,

 

186
Rifulse lo splendor molto più chiaro
ove d’Almonte giacea morto il figlio.
Medoro andò, piangendo, al signor caro;
che conobbe il quartier bianco e vermiglio:
e tutto ‘l viso gli bagnò d’amaro
pianto, che n’avea un rio sotto ogni ciglio,
in sì dolci atti, in sì dolci lamenti,
che potea ad ascoltar fermare i venti.

 

187
Ma con sommessa voce e a pena udita;
non che riguardi a non si far sentire,
perch’abbia alcun pensier de la sua vita,
più tosto l’odia, e ne vorrebbe uscire:
ma per timor che non gli sia impedita
l’opera pia che quivi il fe’ venire.
Fu il morto re sugli omeri sospeso
di tramendui, tra lor partendo il peso.

 

188
Vanno affrettando i passi quanto ponno,
sotto l’amata soma che gl’ingombra.
E già venìa chi de la luce è donno
le stelle a tor del ciel, di terra l’ombra;
quando Zerbino, a cui del petto il sonno
l’alta virtude, ove è bisogno, sgombra,
cacciato avendo tutta notte i Mori,
al campo si traea nei primi albori.

 

189
E seco alquanti cavallieri avea,
che videro da lunge i dui compagni.
Ciascuno a quella parte si traea,
sperandovi trovar prede e guadagni.
- Frate, bisogna (Cloridan dicea)
gittar la soma, e dare opra ai calcagni;
che sarebbe pensier non troppo accorto,
perder duo vivi per salvar un morto. -

 

190
E gittò il carco, perché si pensava
che ‘l suo Medoro il simil far dovesse:
ma quel meschin, che ‘l suo signor più amava,
sopra le spalle sue tutto lo resse.
L’altro con molta fretta se n’andava,
come l’amico a paro o dietro avesse:
se sapea di lasciarlo a quella sorte,
mille aspettate avria, non ch’una morte.

 

191
Quei cavallier, con animo disposto
che questi a render s’abbino o a morire,
chi qua chi là si spargono, ed han tosto
preso ogni passo onde si possa uscire.
Da loro il capitan poco discosto,
più degli altri è sollicito a seguire;
ch’in tal guisa vedendoli temere,
certo è che sian de le nimiche schiere.

 

192
Era a quel tempo ivi una selva antica,
d’ombrose piante spessa e di virgulti,
che, come labirinto, entro s’intrica
di stretti calli e sol da bestie culti.
Speran d’averla i duo pagan sì amica,
ch’abbi a tenerli entro a’ suoi rami occulti.
Ma chi del canto mio piglia diletto,
un’altra volta ad ascoltarlo aspetto.

 

˜   ™

CANTO XIX

 

1
Alcun non può saper da chi sia amato,
quando felice in su la ruota siede:
però c’ha i veri e i finti amici a lato,
che mostran tutti una medesma fede.
Se poi si cangia in tristo il lieto stato,
volta la turba adulatrice il piede;
e quel che di cor ama riman forte,
ed ama il suo signor dopo la morte.

 

2
Se, come il viso, si mostrasse il core,
tal ne la corte è grande e gli altri preme,
e tal è in poca grazia al suo signore,
che la lor sorte muteriano insieme.
Questo umil diverria tosto il maggiore:
staria quel grande infra le turbe estreme.
Ma torniamo a Medor fedele e grato,
che ‘n vita e in morte ha il suo signore amato.

 

3
Cercando già nel più intricato calle
il giovine infelice di salvarsi;
ma il grave peso ch’avea su le spalle,
gli facea uscir tutti i partiti scarsi.
Non conosce il paese, e la via falle,
e torna fra le spine a invilupparsi.
Lungi da lui tratto al sicuro s’era
l’altro, ch’avea la spalla più leggiera.

 

4
Cloridan s’è ridutto ove non sente
di chi segue lo strepito e il rumore:
ma quando da Medor si vede assente,
gli pare aver lasciato a dietro il core.
- Deh, come fui (dicea) sì negligente,
deh, come fui sì di me stesso fuore,
che senza te, Medor, qui mi ritrassi,
né sappia quando o dove io ti lasciassi! -

 

5
Così dicendo, ne la torta via
de l’intricata selva si ricaccia;
ed onde era venuto si ravvia,
e torna di sua morte in su la traccia.
Ode i cavalli e i gridi tuttavia,
e la nimica voce che minaccia:
all’ ultimo ode il suo Medoro, e vede
che tra molti a cavallo è solo a piede.

 

6
Cento a cavallo, e gli son tutti intorno:
Zerbin commanda e grida che sia preso.
L’infelice s’aggira com’un torno,
e quanto può si tien da lor difeso,
or dietro quercia, or olmo, or faggio, or orno,
né si discosta mai dal caro peso.
L’ha riposato al fin su l’erba, quando
regger nol puote, e gli va intorno errando:

 

7
come orsa, che l’alpestre cacciatore
ne la pietrosa tana assalita abbia,
sta sopra i figli con incerto core,
e freme in suono di pietà e di rabbia:
ira la ‘nvita e natural furore
a spiegar l’ugne e a insanguinar le labbia;
amor la ‘ntenerisce, e la ritira
a riguardare ai figli in mezzo l’ira.

 

8
Cloridan, che non sa come l’aiuti,
e ch’esser vuole a morir seco ancora,
ma non ch’in morte prima il viver muti,
che via non truovi ove più d’un ne mora;
mette su l’arco un de’ suoi strali acuti,
e nascoso con quel sì ben lavora,
che fora ad uno Scotto le cervella,
e senza vita il fa cader di sella.

 

9
Volgonsi tutti gli altri a quella banda
ond’era uscito il calamo omicida.
Intanto un altro il Saracin ne manda,
perché ‘l secondo a lato al primo uccida;
che mentre in fretta a questo e a quel domanda
chi tirato abbia l’arco, e forte grida,
lo strale arriva e gli passa la gola,
e gli taglia pel mezzo la parola.

 

10
Or Zerbin, ch’era il capitano loro,
non poté a questo aver più pazienza.
Con ira e con furor venne a Medoro,
dicendo: - Ne farai tu penitenza. -
Stese la mano in quella chioma d’oro,
e strascinollo a sé con violenza:
ma come gli occhi a quel bel volto mise,
gli ne venne pietade, e non l’uccise.

 

11
Il giovinetto si rivolse a’ prieghi,
e disse: - Cavallier, per lo tuo Dio,
non esser sì crudel, che tu mi nieghi
ch’io sepelisca il corpo del re mio.
Non vo’ ch’altra pietà per me ti pieghi,
né pensi che di vita abbi disio:
ho tanta di mia vita, e non più, cura,
quanta ch’al mio signor dia sepultura.

 

12
E se pur pascer vòi fiere ed augelli,
che ‘n te il furor sia del teban Creonte,
fa lor convito di miei membri, e quelli
sepelir lascia del figliuol d’Almonte. -
Così dicea Medor con modi belli,
e con parole atte a voltare un monte;
e sì commosso già Zerbino avea,
che d’amor tutto e di pietade ardea.

 

13
In questo mezzo un cavallier villano,
avendo al suo signor poco rispetto,
ferì con una lancia sopra mano
al supplicante il delicato petto.
Spiacque a Zerbin l’atto crudele e strano;
tanto più, che del colpo il giovinetto
vide cader sì sbigottito e smorto,
che ‘n tutto giudicò che fosse morto.

 

14
E se ne sdegnò in guisa e se ne dolse,
che disse: - Invendicato già non fia! -
e pien di mal talento si rivolse
al cavallier che fe’ l’impresa ria:
ma quel prese vantaggio, e se gli tolse
dinanzi in un momento, e fuggì via.
Cloridan, che Medor vede per terra,
salta del bosco a discoperta guerra.

 

15
E getta l’arco, e tutto pien di rabbia
tra gli nimici il ferro intorno gira,
più per morir, che per pensier ch’egli abbia
di far vendetta che pareggi l’ira.
Del proprio sangue rosseggiar la sabbia
fra tante spade, e al fin venir si mira;
e tolto che si sente ogni potere,
si lascia a canto al suo Medor cadere.

 

16
Seguon gli Scotti ove la guida loro
per l’alta selva alto disdegno mena,
poi che lasciato ha l’uno e l’altro Moro,
l’un morto in tutto, e l’altro vivo a pena.
Giacque gran pezzo il giovine Medoro,
spicciando il sangue da sì larga vena,
che di sua vita al fin saria venuto,
se non sopravenia chi gli diè aiuto.

 

17
Gli sopravenne a caso una donzella,
avolta in pastorale ed umil veste,
ma di real presenza e in viso bella,
d’alte maniere e accortamente oneste.
Tanto è ch’io non ne dissi più novella,
ch’a pena riconoscer la dovreste:
questa, se non sapete, Angelica era,
del gran Can del Catai la figlia altiera.

 

18
Poi che ‘l suo annello Angelica riebbe,
di che Brunel l’avea tenuta priva,
in tanto fasto, in tanto orgoglio crebbe,
ch’esser parea di tutto ‘l mondo schiva.
Se ne va sola, e non si degnerebbe
compagno aver qual più famoso viva:
si sdegna a rimembrar che già suo amante
abbia Orlando nomato, o Sacripante.

 

19
E sopra ogn’altro error via più pentita
era del ben che già a Rinaldo volse,
troppo parendole essersi avilita,
ch’a riguardar sì basso gli occhi volse.
Tant’arroganza avendo Amor sentita,
più lungamente comportar non volse:
dove giacea Medor, si pose al varco,
e l’aspettò, posto lo strale all’arco.

 

20
Quando Angelica vide il giovinetto
languir ferito, assai vicino a morte,
che del suo re che giacea senza tetto,
più che del proprio mal si dolea forte;
insolita pietade in mezzo al petto
si sentì entrar per disusate porte,
che le fe’ il duro cor tenero e molle,
e più, quando il suo caso egli narrolle.

 

21
E rivocando alla memoria l’arte
ch’in India imparò già di chirugia
(che par che questo studio in quella parte
nobile e degno e di gran laude sia;
e senza molto rivoltar di carte,
che ‘l patre ai figli ereditario il dia),
si dispose operar con succo d’erbe,
ch’a più matura vita lo riserbe.

 

22
E ricordossi che passando avea
veduta un’erba in una piaggia amena;
fosse dittamo, o fosse panacea,
o non so qual, di tal effetto piena,
che stagna il sangue, e de la piaga rea
leva ogni spasmo e perigliosa pena.
La trovò non lontana, e quella colta,
dove lasciato avea Medor, diè volta.

 

23
Nel ritornar s’incontra in un pastore
ch’a cavallo pel bosco ne veniva,
cercando una iuvenca, che già fuore
duo dì di mandra e senza guardia giva.
Seco lo trasse ove perdea il vigore
Medor col sangue che del petto usciva;
e già n’avea di tanto il terren tinto,
ch’era omai presso a rimanere estinto.

 

24
Del palafreno Angelica giù scese,
e scendere il pastor seco fece anche.
Pestò con sassi l’erba, indi la prese,
e succo ne cavò fra le man bianche;
ne la piaga n’infuse, e ne distese
e pel petto e pel ventre e fin a l’anche:
e fu di tal virtù questo liquore,
che stagnò il sangue, e gli tornò il vigore;

 

25
e gli diè forza, che poté salire
sopra il cavallo che ‘l pastor condusse.
Non però volse indi Medor partire
prima ch’in terra il suo signor non fusse.
E Cloridan col re fe’ sepelire;
e poi dove a lei piacque si ridusse.
Ed ella per pietà ne l’umil case
del cortese pastor seco rimase.

 

26
Né fin che nol tornasse in sanitade,
volea partir: così di lui fe’ stima,
tanto se intenerì de la pietade
che n’ebbe, come in terra il vide prima.
Poi vistone i costumi e la beltade,
roder si sentì il cor d’ascosa lima;
roder si sentì il core, e a poco a poco
tutto infiammato d’amoroso fuoco.

 

27
Stava il pastore in assai buona e bella
stanza, nel bosco infra duo monti piatta,
con la moglie e coi figli; ed avea quella
tutta di nuovo e poco inanzi fatta.
Quivi a Medoro fu per la donzella
la piaga in breve a sanità ritratta:
ma in minor tempo si sentì maggiore
piaga di questa avere ella nel core.

 

28
Assai più larga piaga e più profonda °°
nel cor sentì da non veduto strale,
che da’ begli occhi e da la testa bionda
di Medoro aventò l’Arcier c’ha l’ale.
Arder si sente, e sempre il fuoco abonda;
e più cura l’altrui che ‘l proprio male:
di sé non cura, e non è ad altro intenta,
ch’a risanar chi lei fere e tormenta.

 

29
La sua piaga più s’apre e più incrudisce,
quanto più l’altra si ristringe e salda.
Il giovine si sana: ella languisce
di nuova febbre, or agghiacciata, or calda.
Di giorno in giorno in lui beltà fiorisce:
la misera si strugge, come falda
strugger di nieve intempestiva suole,
ch’in loco aprico abbia scoperta il sole.

 

30
Se di disio non vuol morir, bisogna
che senza indugio ella se stessa aiti:
e ben le par che di quel ch’essa agogna,
non sia tempo aspettar ch’altri la ‘nviti.
Dunque, rotto ogni freno di vergogna,
la lingua ebbe non men che gli occhi arditi:
e di quel colpo domandò mercede,
che, forse non sapendo, esso le diede.

 

31
O conte Orlando, o re di Circassia,
vostra inclita virtù, dite, che giova?
Vostro alto onor dite in che prezzo sia,
o che mercé vostro servir ritruova.
Mostratemi una sola cortesia
che mai costei v’usasse, o vecchia o nuova,
per ricompensa e guidardone e merto
di quanto avete già per lei sofferto.

 

32
Oh se potessi ritornar mai vivo, §§
quanto ti parria duro, o re Agricane!
che già mostrò costei sì averti a schivo
con repulse crudeli ed inumane.
O Ferraù, o mille altri ch’io non scrivo,
ch’avete fatto mille pruove vane
per questa ingrata, quanto aspro vi fôra,
s’a costu’ in braccio voi la vedesse ora!

 

33
Angelica a Medor la prima rosa
coglier lasciò, non ancor tocca inante:
né persona fu mai sì aventurosa,
ch’in quel giardin potesse por le piante.
Per adombrar, per onestar la cosa,
si celebrò con cerimonie sante
il matrimonio, ch’auspice ebbe Amore,
e pronuba la moglie del pastore.

 

34
Fersi le nozze sotto all’umil tetto
le più solenni che vi potean farsi;
e più d’un mese poi stero a diletto
i duo tranquilli amanti a ricrearsi.
Più lunge non vedea del giovinetto
la donna, né di lui potea saziarsi;
né, per mai sempre pendergli dal collo,
il suo disir sentia di lui satollo.

 

35
Se stava all’ombra o se del tetto usciva,
avea dì e notte il bel giovine a lato:
matino e sera or questa or quella riva
cercando andava, o qualche verde prato:
nel mezzo giorno un antro li copriva,
forse non men di quel commodo e grato,
ch’ebber, fuggendo l’acque, Enea e Dido,
de’ lor secreti testimonio fido.

 

36
Fra piacer tanti, ovunque un arbor dritto
vedesse ombrare o fonte o rivo puro,
v’avea spillo o coltel subito fitto;
così, se v’era alcun sasso men duro:
ed era fuori in mille luoghi scritto,
e così in casa in altritanti il muro,
Angelica e Medoro, in vari modi
legati insieme di diversi nodi.

 

37
Poi che le parve aver fatto soggiorno
quivi più ch’a bastanza, fe’ disegno
di fare in India del Catai ritorno,
e Medor coronar del suo bel regno.
Portava al braccio un cerchio d’oro, adorno
di ricche gemme, in testimonio e segno
del ben che ‘l conte Orlando le volea;
e portato gran tempo ve l’avea.

 

38
Quel donò già Morgana a Ziliante,
nel tempo che nel lago ascoso il tenne;
ed esso, poi ch’al padre Monodante,
per opra e per virtù d’Orlando venne,
lo diede a Orlando: Orlando ch’era amante,
di porsi al braccio il cerchio d’or sostenne,
avendo disegnato di donarlo
alla regina sua di ch’io vi parlo.

39
Non per amor del paladino, quanto
perch’era ricco e d’artificio egregio,
caro avuto l’avea la donna tanto,
che più non si può aver cosa di pregio.
Se lo serbò ne l’Isola del pianto,
non so già dirvi con che privilegio,
là dove esposta al marin mostro nuda
fu da la gente inospitale e cruda.

40

 

Quivi non si trovando altra mercede
ch’al buon pastor ed alla moglie dessi,
che serviti gli avea con sì gran fede
dal dì che nel suo albergo si fur messi,
levò dal braccio il cerchio e gli lo diede,
e volse per suo amor che lo tenessi.
Indi saliron verso la montagna
che divide la Francia da la Spagna.

 

41
Dentro a Valenza o dentro a Barcellona
per qualche giorno avea pensato porsi,
fin che accadesse alcuna nave buona
che per Levante apparecchiasse a sciorsi.
Videro il mar scoprir sotto a Girona
ne lo smontar giù dei montani dorsi;
e costeggiando a man sinistra il lito,
a Barcellona andar pel camin trito.

 

42
Ma non vi giunser prima, ch’un uom pazzo
giacer trovato in su l’estreme arene,
che, come porco, di loto e di guazzo
tutto era brutto e volto e petto e schene.
Costui si scagliò lor come cagnazzo
ch’assalir forestier subito viene;
e diè lor noia, e fu per far lor scorno.
Ma di Marfisa a ricontarvi torno.