Platone, Il mito di Theuth

Categoria: Percorsi
Ultima modifica il Sabato, 14 Settembre 2013 18:20
Pubblicato Martedì, 20 Settembre 2005 18:50
Scritto da quomodo
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Platone: la scrittura farmaco della dimenticanza

Il mito di Theuth e di Thamus

 

Platone (427-347 a.C.)
dal Fedro, V 274B-278E

 

Parte quinta. Superiorità dell’oralità rispetto alla scrittura

La scrittura non accresce né la sapienza né la memoria degli uomini

Socrate - Resta ora da parlare della convenienza dello scritto e della non convenienza, quando esso vada bene e quando sia invece non conveniente. O no?

Fedro - Sì.

Socrate - Ora sai in quale modo, per quanto concerne i discorsi, si può massimamente piacere a dio, facendoli oppure parlando di essi?

Fedro - Poprio no. E tu?

Socrate - Io posso narrarti una storia tramandataci dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini?

Fedro - La tua domanda è ridicola! Ma narrami questa storia che hai udito.

Socrate - Ho udito, dunque, narrare che presso Naucrati d’Egitto c’era uno degli antichi dèi di quel luogo, al quale era sacro l’uccello che chiamano Ibis, e il nome di questo dio era Theuth. Dicono che per primo egli abbia scoperto i numeri, il calcolo, la geometria e l’astronomia e poi il gioco del tavoliere e dei dadi e, infine, anche la scrittura. Re di tutto quanto l’Egitto a quel tempo era Thamus e abitava nella grande città dell’Alto Nilo. Gli Elleni la chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano Ammone il suo dio. E Theuth andò da Thamus, gli mostrò queste arti e gli disse che bisognava insegnarle a tutti gli Egizi. E il re gli domandò quale fosse l’utilità di ciascuna di quelle arti, e, mentre il dio gliela spiegava, a seconda che gli sembrasse che dicesse bene o non bene, disapprovava oppure lodava. A quel che si narra, molte furono le cose che, su ciascun’arte, Thamus disse a Theuth in biasimo o in lode, e per esporle sarebbe necessario un lungo discorso.

Ma quando si giunse alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza».

E il re rispose: «O ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora tu, essendo padre della scrittura, per affetto hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria.

«Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità: infatti essi, divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre, come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti».

Fedro - O Socrate, ti è facile narrare racconti egiziani, o di quale altro paese tu vuoi!

Socrate - Ma se ci sono stati alcuni, mio caro, che hanno creduto che i primi vaticini di Zeus Dodoneo venissero dai discorsi di una quercia! Gli uomini di allora, dato che non erano sapienti come voi giovani, nella loro semplicità, si accontentavano di ascoltare «una quercia o una rupe», pur che dicessero la verità; ma per te, forse, fa differenza chi parla e di dove è; infatti, tu non guardi solamente a questo, se le cose stanno come egli dice oppure se stanno diversamente.

Fedro - Hai colpito giusto: anche a me pare che, riguardo alla scrittura, le cose stiano come dice il re tebano.

Socrate - E allora, chi ritenesse di poter tramandare un’arte con la scrittura, e chi la ricevesse convinto che da quei segni scritti potrà trarre qualcosa di chiaro e saldo, dovrebbe essere colmo di grande ingenuità e dovrebbe ignorare veramente il vaticinio di Ammone, se ritiene che i discorsi messi per iscritto siano qualcosa di più di un mezzo per richiamare alla memoria di chi sa le cose su cui verte lo scritto.

Fedro - Giustissimo.

 

Lo scritto non sa aiutarsi e ha bisogno del soccorso del suo autore

Socrate - Perché, o Fedro, questo ha di terribile la scrittura, simile per la verità, alla pittura: infatti, le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma se domandi loro qualcosa, se ne restano zitte, chiuse in un solenne silenzio; e così fanno anche i discorsi. Tu crederesti che parlino pensando essi stessi qualcosa, ma se, volendo capire bene, domandi loro qualcosa di quello che hanno detto, continuano a ripetere una sola e medesima cosa. E una volta che un discorso sia scritto, rotola da per tutto, nelle mani di coloro che se ne intendono e così pure nelle mani di coloro ai quali non importa nulla, e non sa a chi deve parlare e a chi no. E se gli recano offesa e a torto lo oltraggiano, ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, perché non è capace di difendersi e di aiutarsi da solo.

Fedro - Anche questo che hai detto è giustissimo.

 

Le ragioni della superiorità dell’oralità sulla scrittura

Socrate - E allora? Vogliamo considerare ora un altro discorso, fratello legittimo di questo? E vogliamo vedere in quale modo nasca, e, per sua natura, quanto sia migliore e più potente di questo?

Fedro - Qual è questo discorso, e in quale modo tu dici che nasca?

Socrate - È il discorso che viene scritto, mediante la scienza, nell’anima di chi impara, e che è capace di difendersi da sé e sa con chi deve parlare e con chi deve tacere.

Fedro - Intendi dire il discorso di colui che sa, il discorso vivente e animato, del quale il discorso scritto può dirsi, a buona ragione, un’immagine?

 

Lo scritto come forma di gioco e la serietà dell’oralità

Socrate - Sì, appunto. Ora, dimmi un po’ questo: l’agricoltore che ha senno, farà sul serio seminando d’estate nei «giardini di Adone» i semi che gli stanno a cuore e dai quali vuole che nascano frutti, e si rallegrerà nel vederli crescere belli in otto giorni, o lo farà per gioco e a motivo della festa, se pure lo farà? Invece, i semi dei quali si preoccupa sul serio li seminerà in luogo adatto, seguendo tutte le regole dell’arte dell’agricoltura, contento che quanti ne ha seminati giungano al loro termine in otto mesi?

Fedro - Così farà, o Socrate, in quest’ultimo caso seriamente, nell’altro non seriamente, come tu dici.

Socrate - E chi ha la scienza del giusto, del bello e del buono, dovremo dire che abbia meno senno di un agricoltore per le sue sementi?

Fedro - No, assolutamente.

Socrate - E allora, se vorrà fare sul serio, non le scriverà sull’acqua nera, seminandole mediante la cannuccia da scrivere, facendo discorsi che non sono capaci di difendersi da soli col ragionamento, e che non sono nemmeno capaci di insegnare la verità in modo adeguato.

Fedro - No, almeno non è verosi­mile.

Socrate - No, infatti. Ma i giardini di scritture li seminerà e li scriverà per gioco, quando li scriverà, accu­mulando materiale per richiamare alla memoria a se medesimo, per quando giunga alla vecchiaia che porta all’oblio, se mai giunga, e per chiunque segua la medesima traccia, e gioirà di vederli crescere freschi. E quando gli altri si dedicheranno ad altri giochi, passando il loro tempo nei simposi, o in altri piaceri simili a questi, egli allora, come sembra, invece che in quelli passerà la sua vita dilettandosi nelle cose che io dico.

Fedro - Ed è un gioco molto bello, o Socrate, in confronto dell’altro che non vale nulla, questo di chi è capace di dilettarsi con i discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli.

Socrate - Così è in effetti, o caro Fedro, ma molto più bello diventa l’impegno su queste cose, credo, quando si faccia uso dell’arte dialettica e con essa, prendendo un’anima adatta, si piantino e si seminino discorsi con conoscenza, che siano capaci di venire in soccorso a sé e a chi li ha piantati, che non restino privi di frutto, ma portino seme, dal quale nascano anche in altri uomini altri discorsi, che siano capaci di rendere questo seme immortale e che facciano felice chi lo possiede, nella misura più grande che all’uomo sia possibile.

Fedro - Molto più bello è questo che dici.

 

Chiarezza e compiutezza sono proprie dell’oralità e non dello scritto

Socrate - E una volta d’accordo su questo, siamo ora in grado di giudicare, o Fedro, le questioni di prima.

Fedro - Quali?

Socrate - Quelle che volevamo chiarire e per cui siamo giunti a questo punto, ossia di esaminare il rimprovero fatto a Lisia circa lo scrivere discorsi, e di esaminare i discorsi medesimi, quali fossero scritti a norma d’arte e quali fossero invece scritti senza arte. Quanto a ciò che sia a norma d’arte e quanto a ciò che non lo sia, mi pare che lo abbiamo chiarito in maniera conveniente.

Fedro - Sì, mi è parso. Ma ricor­dami ancora una volta come abbiamo detto.

Socrate - Prima bisogna che uno sappia il vero su ciascuna delle cose sulle quali parla o scrive, e sia in grado di definire ogni cosa in se stessa, e, una volta definita, sappia dividerla nelle sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più ulteriormente divisibile; e dopo essere penetrato nella natura dell’anima, ritrovando allo stesso modo la specie adatta per ciascuna natura, bisogna che costruisca e ordini il suo discorso in modo corrispondente, dando ad un’anima complessa discorsi complessi e comprendenti tutte le armonie, e ad un’anima semplice discorsi semplici. Prima di questo non sarà possibile che si tratti con arte, nella misura in cui convenga per natura, il genere dei discorsi, né per insegnare, né per persuadere, come tutto ciò che si è detto in precedenza ci ha ricordato.

Fedro - Su questo punto proprio questo risulta.

Socrate - E poi, sulla questione se è bello o brutto pronunciare e scrivere discorsi e quando il biasimo sia fatto a ragione e quando a torto, non ce l’ha forse chiarito il discorso che abbiamo fatto poco fa?

Fedro - Che cosa abbiamo detto?

Socrate - Che se Lisia, o chiunque altro, ha scritto o scriverà su cose di interesse privato o di interesse pubblico, proponendo leggi, scrivendo opere politiche, nella convinzione che in queste opere scritte vi sia una grande stabilità e chiarezza, allora questo, per chi scrive, sarà di grande vergogna, sia che qualcuno lo dica sia che non lo dica. Infatti, il non distinguere la veglia dal sonno per quanto concerne il giusto e l’ingiusto, il male e il bene, la cosa non può non essere, per davvero, vergognosissima, quand’anche la moltitudine lo lodi.

Fedro - Non può di certo.

Socrate - Invece, chi ritiene che in un discorso scritto, qualunque sia l’argomento su cui verte, vi sia neces­sariamente molta parte di gioco, e che nessun discorso sia mai stato scrittoi. verso o in prosa con molta serietà (e nemmeno sia mai stato recitato, come i discorsi che vengono recitati dai rapsodi, che senza possibilità di esa­me e senza nulla insegnare mirano solamente a persuadere), ma che, veramente, i migliori di essi non sono altro che mezzi per aiutare la memoria di coloro che già sanno; e ritiene che solamente nei discorsi detti nel contesto dell’insegnamento e allo scopo di fare imparare, ossia nei discorsi scritti realmente nell’anima intorno al giusto e al bello e al bene, ci sia chiarezza e compiutezza e serietà; e inoltre ritiene che discorsi di questo genere debbano essere detti suoi, come se fossero dei figli legittimi, e prima di tutto il discorso che egli reca in se stesso, se mai lo abbia trovato, e poi quelli che, o figli o fratelli di questo, sono nati in ugual modo in altre anime di altri uomini a seconda del loro valore, e saluta tutti gli altri e li manda a spasso; ebbene, o Fedro, appunto un uomo di questo genere è probabile che sia quello che tu ed io ci augureremmo di diventare.

Fedro - Lo voglio davvero, e mi auguro quel che dici.

 

Il filosofo non affida le cose di maggior valore alla scrittura ma all’oralità

Socrate - E per quanto riguarda i discorsi, abbiamo scherzato abbastanza. Ma tu va’ da Lisia e digli che noi due, discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe, abbiamo ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di dire a Lisia e a chiunque altro componga discorsi, e ad Omero e a chiunque altro abbia composto poesia senza musica o con musica, e, in terzo luogo, a Solone, e a chiunque in discorsi politici che chiama leggi, ha composto opere scritte, che se ha composto queste opere sapendo come sta il vero, ed è in grado di soccorrerle quando viene a difendere le cose che ha scritto, e quando parla sia in grado di mostrare la debolezza degli scritti, ebbene, un uomo del genere va chiamato non col nome che quelli hanno, ma con un nome derivato da ciò cui egli si è dedicato con verità.

Fedro - E quale è questo nome che tu gli dai?

Socrate - Chiamarlo sapiente, o Fedro, mi pare troppo, e che tale nome convenga solamente a un dio; ma chiamarlo filosofo, ossia amante di sapienza, o con qualche altro nome di questo tipo, gli si adatterebbe meglio e sarebbe più adeguato.

Fedro - E non sarebbe per nulla fuori luogo.

Socrate - Invece, colui che non possiede cose che siano di maggior valore rispetto a quelle che ha composto o scritto, rivoltandole in su e in giù per molto tempo, incollando una parte con l’altra o togliendo, non lo chiamerai, a giusta ragione, poeta, o compositore di discorsi, o scrittore di leggi?

Fedro - E come no?

Socrate - Di’, allora, queste cose al tuo amico!

(traduz. di Giovanni Reale, in Platone, Tutti gli scritti, Milano, Rusconi, 1992, pp. 579-583)