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canzone

La canzone è una delle tre forme principali della lirica dell’età di Dante: come la ballata e il sonetto, è formata di stanze con una fronte di due piedi in genere uguali e una sirma divisibile in due volte solitamente simmetriche ovvero indivisibile. A differenza del sonetto, però, oltre agli endecasillabi presenta quasi sempre anche dei settenari. Talora (ma non sempre) l’ultima stanza è ridotta alla sola sirma e si definisce congedo perché l’io lirico vi saluta il componimento.

La canzone è un componimento strofico (►strofa) di alto rango e di tema principalmente lirico (anche nel senso di legato alla musica, almeno in origine), talvolta dottrinale e politico, ma sempre dantescamente ‘tragico’, che i Siciliani e poi i Toscani rielaborarono sul modello della cansò provenzale. Dante lo utilizzò con particolare convinzione e lo teorizzò nel II libro del De vulgari eloquentia come la forma poetica più alta, sopra la ballata e il sonetto; Petrarca ne trasmise il modello perfezionato (canzone petrarchesca) alla letteratura non solo italiana dei secoli successivi.

Lo schema, ad es., della dantesca Donne ch’avete intellecto d’amore (dalla Vita nuova) è: ABBC, ABBC; CDD, CEE (e così via nelle strofe successive: FGGH, FGGH; HII, HLL; ecc.). In sintesi: una prima parte (detta fronte), di un numero variabile di versi, divisa di solito in due sezioni uguali o simmetriche (piedi), seguita da una seconda parte (sirma o coda), anch’essa variabile nel numero dei versi, che può presentarsi divisa simmetricamente in due sezioni (volte), ma anche assai spesso indivisa. Talora (ma non è obbligatorio) le due parti della stanza possono essere collegate fra loro da una chiave, che di solito consiste nel primo verso dopo la fronte (che può appartenere o no alla sirma) in rima coll’ultimo verso della fronte. Dopo la prima strofa (o ►stanza, in provenzale cobla), nelle successive (nell’es. sono quattro) si ripete lo stesso schema nella successione dei versi (a un endecasillabo corrisponde un endecasillabo, a un settenario un settenario, ecc.) e nella distribuzione delle rime.

I provenzali preferivano stanze unissonans, che manteneva non solo lo stesso schema rimico ma proprio le stesse rime in tutte le stanze; Siciliani e Toscani preferivano invece stanze singulars, con stesso schema ma rime nuove di stanza in stanza. L’ultima stanza di solito è un congedo (o commiato; Dante nel Convivio la chiama in provenzale tornada) perché il poeta vi saluta il testo stesso della sua poesia (funzione metapoetica). Il congedo può avere la forma di una stanza come le altre; oppure riprende solo lo schema della sirma delle stanze precedenti (più raramente lo schema della fronte, o solo di una volta della sirma); nel caso che nelle stanze esista una chiave, nel congedo vi corrisponderà una ►rima irrelata.

La tradizione provenzale ha elaborato, anche per fini mnemonici, diversi tipi di legame tra le stanze (►cobla). I trovatori, come pure i Siciliani, impiegano una gran varietà di metri, inclusi i parisillabi. I Toscani tendono invece a limitarsi all’uso degli imparisillabi maggiori: endecasillabo e settenario. Dante esalta l’endecasillabo e lo pone d’obbligo all’inizio di stanza; Petrarca non sempre lo fa. Rigorosamente di tutti endecasillabi la canzone ►sestina per l’eccezionalità della sfida tecnica e semantica.

Dante enumera le strutture delle canzoni secondo queste possibilità: 1) due piedi + sirma indivisa; 2) due piedi + due volte; 3) fronte indivisa + 2 volte (è uno schema, questo, praticamente inesistente nella tradizione italiana); esclusa invece la possibilità di una stanza composta da fronte e sirma indivise.

Nei piedi tutti i versi devono rimare; nella sirma si ammettevano uno o due versi senza rima (irrelati o che rimano con i versi corrispondenti delle stanze successive). Le sirme dantesche chiudono spesso con uno o più distici a rima baciata (col nome di combinatio). Paradigma per i secoli futuri, la canzone petrarchesca ha sempre sirma indivisa (tipo 1) e combinatio, varietà di schemi, elusione di isometricità endecasillabica. Così i petrarchisti e poi i secentisti, su su fino a Carducci e D’Annunzio e, rigorosamente petrarchista, il Pasolini friulano. La rigorosa costruzione della c petrarchesca comincia ad essere intaccata nel ‘500 e poi nel ‘600, con l’introduzione di stanze differenti tra loro (e perciò indipendenti) sia per ordine di rime (con aumento delle irrelate) che per numero di versi. Giunge infine la progressiva sperimentazione leopardiana che conduce alla canzone libera o leopardiana (al limite, pura alternanza di settenari e endecasillabi). All’inizio, in All’Italia e Sopra il monumento di Dante alterna schemi diversi, uno per le stanze dispari uno per le pari (ma con ugual numero di versi, in cui corrisponde in buona parte anche la successione delle rime, con spostamenti però dall’endecasillabo al settenario e viceversa). Col Bruto minore (schema AbCDCEfGhIJHklL) aumentano le rime irrelate, fino all’Ultimo canto di Saffo in cui le stanze (diciotto versi) presentano ben sedici endecasillabi irrelati e una combinatio (settenario + endecasillabo) a rima baciata. Punto d’arrivo: A Silvia, 1828, con solamente l’ultimo verso di ogni stanza (settenario) legato a un verso interno di posizione variabile.