Peri, Prefazione all’Euridice

Categoria: Seicento
Ultima modifica il Venerdì, 25 Aprile 2014 08:39
Pubblicato Domenica, 09 Aprile 2006 13:43
Scritto da quomodo
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Jacopo PERI (1561-1633)

Prefazione all’Euridice (1600)

 

Prima ch’io vi porga (benigni lettori) queste Musiche mie, ho stimato convenirmisi farvi noto quello che m’ha indotto a ritrovare questa nuova maniera di canto: poiché di tutte le operazioni humane la ragione debbe essere principio e fonte. E chi non può renderla agevolmente, dà a credere d’haver’operato a caso. 

Benché dal signor Emilio del Cavaliere, prima che da ogni altro ch’io sappia, con maravigliosa invenzione ci fusse fatta udire la nostra musica sulle scene; piacque nondimeno a’ signori Iacopo Corsi ed Ottavio Rinuccini (fin l’anno 1594), che io, adoperandola in altra guisa, mettessi sotto le note la favola di Dafne, dal signor Ottavio composta, per fare una semplice pruova di quello che potesse il canto dell’età nostra. Onde, veduto che si trattava di poesia drammatica e che però si doveva imitar col canto chi parla (e senza dubbio non si parlò mai cantando), stimai che gli antichi Greci e Romani (i quali, secondo l’openione di molti, cantavano su le scene le tragedie intere) usassero un’armonia, che avanzando quella del parlare ordinario, scendesse tanto dalla melodia del cantare che pigliasse forma di cosa mezzana. E questa è la ragione, onde veggiamo in quelle poesie haver’havuto luogo il iambo, che non s’innalza come esametro, ma pure è detto avanzarsi oltr’a’ confini de ragionamenti familiari. E per ciò, tralasciata qualunque altra maniera di canto udita fin qui, mi diedi tutto a ricercare l’imitazione che si debbe a questi poemi; e considerai che quella sorte di voce, che dagli antichi al cantare fu assegnata, la quale essi chiamavano d<i>astematica (quasi trattenuta e sospesa), potesse in parte affrettarsi, e prender temperato corso tra i movimenti del canto sospesi e lenti, e quegli della favella spediti e veloci, et accomodarsi al proposito mio (come l’accomodavano anch’essi, leggendo le poesie et i versi eroici), avvicinandosi all’altra del ragionare, la quale continuata appellavano: il che i nostri moderni (benché forse ad altro fine) hanno ancor fatto nelle musiche loro. Conobbi, parimente, nel nostro parlare alcune voci intonarsi in guisa che vi si può fondare armonia, e nel corso della favella passarsi per altre molte che non si intuonano, finché si ritorni ad altra capace di movimento di nuova consonanza. Et havuto riguardo a que’ modi et a quegli accenti che nel dolerci, nel rallegrarci et in somiglianti cose ci servono, feci muovere il basso al tempo di quegli hor più hor meno, secondo gli affetti, e lo tenni fermo tra le false e tra le buone proporzioni, finché, scorrendo per varie note, la voce di chi ragiona arrivasse a quello che nel parlare ordinario intonandosi, apre la via a nuovo concento. E questo non solo perché il corso del ragionare non ferisse l’orecchio (quasi intoppando negli incontri delle ripercosse corde, dalle consonanze più spesse) o non paresse in un certo modo ballare al moto del basso, e principalmente nelle cose o meste o gravi, richiedendo per natura l’altre più liete più spessi movimenti: ma ancora perché l’uso delle false, o scemasse o ricoprisse quel vantaggio che s’aggiugne dalla necessità dell’intonare ogni nota: di che, per ciò fare, potevan forse haver manco bisogno l’antiche musiche. E però, sì come io non ardirei affermare questo essere il canto nelle greche e nelle romane favole usato, così ho creduto esser quello che solo possa donarcisi dalla nostra musica, per accomodarsi alla nostra favella.

   Onde fatta udire a quei Signori la mia openione, dimostrai loro questo nuovo modo di cantare, e piacque sommamente, non pure al signor Iacopo, il quale haveva di già composte arie bellissime per quella favola, ma al signor Piero Strozzi, al signor Francesco Cini, et ad altri molti intendentissimi gentilhuomini (ché nella nobiltà fiorisce hoggi la musica), come anco a quella famosa, che si può chiamare Euterpe dell’età nostra, la signora Vettoria Archilei: la quale ha sempre fatte degne del cantar suo le musiche mie, adornandole non pure di quei gruppi e di quei lunghi giri di voce semplici e doppi che dalla vivezza dell’ingegno suo son ritrovati ad ogn’hora, più per ubbidire all’uso de’ nostri tempi, che perch’ella stimi consistere in essi la bellezza e la forza del nostro cantare, ma anco di quelle e vaghezze e leggiadrie che non si possono scrivere, e scrivendole non s’imparano da gli scritti. L’udì e la commendò messer Giovanbattista Iacomelli, che in tutte le parti della musica eccellentissimo, ha quasi cambiato il suo cognome col Violino, in cui egli è mirabile; e per tre anni continui che nel carnovale si rappresentò, fu udita con sommo diletto e con applauso universale ricevuta da chiunque vi si ritrovò.

   Ma hebbe miglior ventura la presente Euridice, non perché la sentirono quei Signori et altri valorosi huomini, ch’io nominai, e di più il signor conte Alfonso Fontanella et il signor Orazio Vecchi, testimoni nobilissimi del mio pensiero, ma perché fu rappresentata ad una Regina sì grande, et a tanti famosi principi d’Italia e di Francia, e fu cantata da’ più eccellenti musici de’ nostri tempi. Tra i quali il signor Francesco Rasi, nobile aretino, rappresentò Aminta; il signor Antonio Brandi Arcetro; et il signor Melchior Palantrotti Plutone: e dentro alla scena fu sonata da Signori per nobiltà di sangue e per eccellenza di musica illustri; il signor Iacopo Corsi, che tanto spesso ho nominato, sonò un gravicembalo, et il signor Don Grazìa Montalvo un chitarrone, Messer Giovanbattista dal Violino una lira grande, Messer Giovanni Lapi un liuto grosso. E benché fin allhora l’havessi fatta nel modo appunto che hora viene in luce, nondimeno Giulio Caccini (detto Romano) il cui sommo valore è noto al mondo, fece l’arie d’Euridice et alcune del Pastore e Ninfe del Coro; e de’ cori Al canto al ballo, Sospirate e Poi che gli eterni imperi: e questo perché dovevano esser cantate da persone dependenti da lui, le quali arie si leggono nella sua composta e stampata pur dopo che questa mia fu rappresentata a sua Maestà Cristianissima. 

   Ricevetela però benignamente, cortesi lettori; e benché io non sia arrivato, con questo modo, fin dove mi pareva di poter giugnere (essendo stato freno al mio corso il rispetto della novità), graditela in ogni modo; e forse avverrà ch’in altra occasione io vi dimostri cosa più perfetta di questa. Intanto mi parrà d’haver fatto assai, havendo aperta la strada al valor’altrui di camminare, per le mie orme, alla gloria, dove a me non è dato di poter pervenire. E spero che l’uso delle false, sonate e cantate senza paura, discretamente, et appunto (essendo piaciute a tanti e sì valorosi huomini) non vi saranno di noia, massime nell’arie più meste e più gravi d’Orfeo, d’Arcetro e di Dafne, rappresentata con molta grazia da Iacopo Giusti fanciulletto lucchese.

   E vivete lieti.