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Manzoni, Poesia e storia in concorrenza

Manzoni: verità della storia o della poesia?

La teoria del verosimile

 

Alessandro Manzoni (1785-1873)
da Lettere a Claude Fauriel

 

[profittare della storia senza farle concorrenza]

[29 gennaio 1821]

Vorrei proprio conoscere il vostro parere circa questo sistema di concedersi l’invenzione dei fatti per giungere a rappresentare nel loro sviluppo un complesso di costumi storici. A me, personalmente, sembra una felicissima risorsa per quella benedetta poesia, che si ostina a non voler morire, nonostante le vostre previsioni in contrario. Alla poesia penso sia interdetto il racconto storico vero e proprio, perché la relazione semplice e nuda dei fatti conserva, per ragioni di curiosità spiegabilissime negli uomini, un fascino così immediato, che li disamora di tutte le invenzioni poetiche che vi si volessero mescolare, e anzi le fa apparire ingenue e puerili. Ma radunare i lineamenti caratteristici di un’epoca della società e svolgerli nel giro di un’azione, profittare della storia senza pretendere di farle concorrenza, di fare ciò che essa da sola può fare senz’altro meglio: questa a me sembra la zona d’intervento che può legittimamente riservarsi alla poesia; quella in cui anzi a lei sola è dato di addentrarsi.


[sono immerso nel mio romanzo]

[29 maggio 1822]

Sappiate dunque che io sono immerso nel mio romanzo, la cui trama si svolge in Lombardia tra il 1628 e il ‘31.

    Le memorie che ci restano di quest’epoca presentano e fanno pensare ad una situazione della società del tutto eccezionale: un governo il più arbitrario, commisto di anarchia feudale e di anarchia popolare, un sistema legislativo perlomeno paradossale nei provvedimenti che emana e in quelli che lascia intravedere o che suggerisce; un livello di ignoranza profonda, feroce e pretenziosa: classi sociali diverse, con interessi e principii addirittura opposti; qualche episodio malnoto, ma consegnato al testo di scritti degnissimi di fede, che testimoniano di siffatte condizioni nel loro sfrenato sviluppo; infine una peste come occasione alle prove della nefandezza più cruda e svergognata, ai pregiudizi più assurdi, all’esercizio delle virtù più toccanti, ecc. ecc. ecco di cosa riempire un canovaccio o piuttosto ecco dei materiali che finiranno forse per svelare soltanto la scarsa destrezza di colui che sta per metterli in opera. Ma se si deve affogare, affoghiamo: io oso lusingarmi (ho appreso questa frase dal mio sarto parigino), oso presumere di evitare almeno la taccia di imitazione... A questo scopo, faccio il possibile per imbevermi dello spirito dell’epoca che devo descrivere, per viverci dentro; colpa mia se non riuscirò a rivelarne l’originalità. Quanto al progresso delle vicende e dell’intrigo, ritengo che la strada migliore sia quella di procedere proprio in senso contrario a ciò che hanno fatto gli altri, vale a dire applicarmi direttamente a considerare nella realtà il modo di comportarsi degli uomini, e di considerarlo appunto in quanto esso può avere di opposto allo spirito romanzesco. In tutti i romanzi che mi è capitato di leggere mi sembra di vedere degli sforzi piuttosto innaturali per intessere rapporti a tutti i costi interessanti e impensati tra i varii personaggi, per condurli uniti sulla scena, per inventare delle vicende che influiscono insieme e in diverso modo sul destino comune di tutti, insomma una sorta di artificiosa unità che non si ritrova affatto nella vita reale. So bene che questa unità fa piacere al lettore, ma io penso che questo avvenga solo a causa di una vecchia abitudine; so che in qualche opera ciò passa per un merito, ma ritengo altresì che un giorno questo tipo di procedimento sarà criticato come un difetto, che si citerà questo modo di annodare e intrecciare gli avvenimenti come esempio della costrizione che l’abitudine e il costume esercitano anche sugli spiriti più liberi e più eletti, o dei sacrifici che si devono fare al gusto imperante.

 

 Per approfondire

Sulle lettere al Fauriel, da Oilproject.it