Top menu

2009_incendio_w.jpg2008_controlucemn_w.jpg2009_mantovainrosso_w.jpg2012_squarcio-di-luce_w.jpg2009_sorgere_w.jpg2012_nebbia-su-mantova_w.jpg2009_stagno_w.jpg2010_temporale_w.jpg2012_tre-alberi_w.jpg2011_cespuglio_w.jpg2011_forza-del-vento_w.jpg2012_campo-papaveri_w.jpg2009_sottobosco_w.jpg2011_paes-invernale-2_w.jpg2009_tramonto_w.jpg2008_acquitrino_w.jpg2009_toscanasera_w.jpg2007_grandepino_w.jpg2009_tramonto2_w.jpg2010_steppa_w.jpg2011_marina_w.jpg2011_paes-invernale-1_w.jpg2011_settembre_w.jpg2011_schiumadonda_w.jpg2008_oltreorizzonte_w.jpg

Manzoni, Il vero poetico

Manzoni: verità della storia o della poesia?

La teoria del verosimile

 

Alessandro Manzoni (1785-1873)
dalla Lettre à Monsieur Chauvet (1820)

 

[il problema del vero poetico]

Ammetto, Signore, che il vostro sistema consentirebbe di dare a Shakespeare un’altra risposta: si potrebbe dirgli che l’attenzione che egli ha posto nel rappresentare le vicende nel loro ordine naturale e con le situazioni fondamentali più accertate storicamente, lo assimila a uno storico più che a un poeta. E potreste aggiungere che proprio la regola delle unità l’avrebbe reso poeta, costringendolo a creare un’azione, un intreccio, delle peripezie; perché, voi dite, «è così che i limiti imposti dall’arte danno stimolo all’immaginazione dell’artista, e lo costringono a diventare creatore». È proprio questa, ne convengo, la vera conseguenza di una tale regola; e la più superficiale conoscenza delle opere teatrali che l’hanno accettata testimonia del resto che essa ha raggiunto il suo effetto. Secondo voi, questo è un gran vantaggio. Io mi permetto di non essere dello stesso parere, e, al contrario, di considerare tale effetto come l’inconveniente più grave prodotto dalla regola; sì, questa necessità di creare, imposta arbitrariamente all’arte, la allontana dalla verità e la danneggia tanto nei suoi risultati che nei suoi mezzi.

    Non so se sto per dire qualcosa che contraddice le idee accreditate; ma credo di dire una verità assai semplice affermando che l’essenza della poesia non consiste nell’inventare dei fatti. Questo genere di invenzione è quanto di più facile e di più insignificante esista nel lavoro della mente, e richiede ben poca riflessione e persino ben poca immaginazione. Perciò creazioni di questo genere si moltiplicano più che mai; mentre tutti i grandi monumenti poetici hanno a base avvenimenti tratti dalla storia, o – che in questo caso è poi lo stesso – da ciò che un tempo è stato considerato come storia. [...]

    Ma, si potrà dire, se al poeta si toglie ciò che lo distingue dallo storico, e cioè il diritto di inventare i fatti, che cosa gli resta? Che cosa gli resta? la poesia; sì, la poesia. Perché, alla fin fine, che cosa ci dà la storia? ci dà avvenimenti che, per così dire, sono conosciuti soltanto nel loro esterno; ci dà ciò che gli uomini hanno fatto. Ma quel che essi hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro successi e i loro scacchi; i discorsi coi quali hanno fatto prevalere, o hanno tentato di far prevalere, le loro passioni e le loro volontà su altre passioni o su altre volontà, coi quali hanno espresso la loro collera, han dato sfogo alla loro tristezza, coi quali, in una parola, hanno rivelato la loro personalità; tutto questo, o quasi, la storia lo passa sotto silenzio; e tutto questo è invece dominio della poesia. Sarebbe assurdo temere che, in tale ambito, manchi mai alla poesia occasione di creare nel senso più serio, e forse nel solo serio, della parola. Ogni segreto dell’animo umano si svela, tutto ciò che determina i grandi avvenimenti, che caratterizza i grandi destini si palesa alle immaginazioni dotate di sufficiente carica di simpatia. Tutto quello che la volontà umana ha di forte o di misterioso, che la sventura ha di sacro e di profondo, il poeta può intuirlo; o, per meglio dire, può individuarlo, capirlo, ed esprimerlo. [...]

    È certo tuttavia che, se si negasse al poeta ogni possibilità di inventare avvenimenti, ci si priverebbe di un gran numero di soggetti tragici. Questa possibilità deve dunque essergli concessa, o, per meglio dire, essa deriva dai principii stessi dell’arte. Ma quali ne sono i limiti? A partire da quale punto l’inventare comincia a diventare un fatto negativo?

    In genere i critici hanno ammesso i due principii: che non bisogna falsare la storia, e che si può, anzi spesso si deve, per dare drammaticità all’azione, aggiungere ai dati storici circostanze che non si trovano nella storia. Hanno poi cercato una regola che conciliasse questi due principii, e si sono sostanzialmente accordati su questa: che gli avvenimenti inventati non devono contraddire i fatti più noti e più importanti dell’azione rappresentata. La ragione che ne hanno data è che lo spettatore non può prestar fede a ciò che contraddice una verità a lui conosciuta. Io giudico buona questa regola perché è fondata sulla natura, e elastica abbastanza per non diventare, nella pratica, un impacciò gratuito. Credo anche assai valida la ragione su cui poggia. Ma mi sembra che tale regola sia giustificata anche da un’altra più importante ragione, una ragione più intrinseca all’essenza dell’arte, e tale da stimolare con più sicurezza ed energia alla sua applicazione: ed è che le cause storiche di un’azione sono anche le più drammatiche e le più interessanti. I fatti, perché più conformi alla verità, per così dire, concreta, possiedono nel più alto grado quel carattere di verità poetica che si cerca nella tragedia. Qual è infatti l’attrazione che la mente prova per questo genere di opere? Quella che si prova nel conoscere l’uomo, nello scoprire quello che vi è di autentico e di intimo nella sua natura, nel vedere l’effetto dei fenomeni esterni sulla sua anima, il fondo dei pensieri dai quali è spinto ad agire; nello scoprire, in un altro uomo, sentimenti che possano suscitare in noi un’autentica consonanza. Quando a un bambino si racconta una storia, egli non manca mai di chiedere: È vero? E non è una tendenza particolare dell’infanzia; il bisogno della verità è l’unica cosa che possa farci attribuire importanza a tutto ciò che apprendiamo. Orbene, il vero drammatico dove si può meglio incontrarlo se non in ciò che gli uomini hanno realmente fatto? Un poeta incontra nella storia un carattere potente che ferma la sua attenzione, che sembra dirgli: Osservami, io t’insegnerò qualcosa sulla natura umana. Il poeta accetta l’invito; vuole delineare questo carattere, vuole svilupparlo: dove troverà atti esterni più conformi alla vera natura dell’uomo che egli si propone di descrivere se non quelli che quest’uomo ha effettivamente compiuti? Costui si è proposto uno scopo; l’ha raggiunto o l’ha fallito; donde il poeta trarrà la più sicura conoscenza di questo fine e dei sentimenti che spingevano il suo personaggio a perseguirlo, se non dall’esarne dei mezzi che questi ha scelto? Spingiamo un po’ più in là la nostra tesi per darle maggior completezza. Il nostro poeta incontra nella storia un’azione che gli interessa di prendere in esame, nel cui fondo vorrebbe penetrare; è così interessante che egli desidera conoscerla in tutti i suoi aspetti e farla conoscere nel modo più vero, più completo, più vivo. Per riuscirci dove cercherà le cause che l’hanno provocata, che hanno determinato il suo compiersi se non nei fatti stessi che sono stati quelle cause?

    Forse, per non aver tenuto conto di questo rapporto fra la verità materiale dei fatti e la loro verità poetica, i critici hanno apposto alla regola un’eccezione che non mi sembra ragionevole. Hanno detto che, quando le principali circostanze di una vicenda storica non fossero molto note, si poteva modificarle o sostituirle con altre di pura invenzione; ma, se non mi sbaglio, questo non si chiama facilitare al poeta la realizzazione del suo argomento; è piuttosto un modo di sottrargli i mezzi più sicuri per trar da esso profitto. Che cosa importa che gli avvenimenti siano o non siano conosciuti dallo spettatore? Se il poeta li ha trovati, è venuto in possesso di un filo per arrivare al vero; perché dovrebbe abbandonarlo? Ha in mano qualcosa di reale; perché buttarlo via? perché rinunciare volontariamente alle grandi lezioni della storia? A che scopo creare un’azione, un intreccio, delle peripezie per motivare risultati le cui motivazioni sono invece dei fatti reali? Forse si vuol mostrare come saprebbe cavarsela, nel suo agire, la natura umana se avesse adottato la regola delle due unità? Senza dubbio, è altra cosa che si è convinti di fare. Ma, seriamente parlando, si fa forse altra cosa in tutte quelle invenzioni in cui la verità viene alterata con tanti sforzi e con effetti così meschini?

    Trovare in una serie di fatti l’elemento che li costituisce in vera e propria azione, cogliere i caratteri di coloro che vi agiscono, dare a questa azione e a questi caratteri uno sviluppo armonico, integrare la storia, ricostruirne, per così dire, la parte che è andata perduta, immaginare, anche, dei fatti là dove la storia non dà che delle indicazioni, inventare, se occorre, dei personaggi per rappresentare i costumi di una determinata epoca, costumi di cui si è a conoscenza, prendere insomma tutto quello che esiste e aggiungere quello che manca, ma in modo che l’invenzione si accordi con la realtà, sia un mezzo in più per evidenziare la realtà, ecco quel che ragionevolmente può essere definito creare. Ma sostituire fatti immaginari a fatti constatati, mantenere le conclusioni che ci dà la storia e respingerne le cause perché non si accordano con una poetica convenzionale, immaginare altre cause per la sola ragione che possono meglio adattarsi a tale poetica, è evidentemente togliere all’arte le basi della natura. E si pretende che questa sia una creazione? Alla buon’ora; sarà se mai una creazione all’incirca simile a quella di un pittore che, volendo assolutamente far entrare in un paesaggio più alberi di quanti non ne possa contenere la dimensione del suo quadro, li serri gli uni contro gli altri e dia a tutti una forma e una posizione che gli alberi in natura non hanno. [...]

[contro lo spirito “romanzesco”]

Spiegare quel che gli uomini hanno sentito, voluto e sofferto attraverso quel che hanno fatto, in questo consiste la poesia drammatica; inventare dei fatti per adattare ad essi dei sentimenti è, da Madernoiselle Scudéri ai giorni nostri, il grande difetto dei romanzi.

    Non voglio per questo asserire che i componimenti che appartengono al genere romanzesco siano sostanzialmente falsi. Certo ci sono dei romanzi che meritano di essere considerati modelli di verità poetica; e sono quelli i cui autori, dopo aver preso atto, in modo preciso e sicuro, dei caratteri e dei costumi, hanno inventato, per poter rappresentare tali caratteri e tali costumi, azioni e situazioni conformi a quelle che si verificano nella vita reale: dico solo che, come ogni genere letterario ha il suo scoglio particolare, così lo scoglio del genere romanzesco è rappresentato dal falso. Il pensiero degli uomini si manifesta con maggiore o minore chiarezza attraverso le loro azioni e i loro discorsi; ma anche quando si parte da questa larga e solida base raramente si giunge alla verità nella rappresentazione dei sentimenti umani. A fianco di un’idea chiara, semplice e vera se ne presentano cento che sono oscure, forzate o false; ed è la difficoltà di separare la prima dalle seconde che rende così esiguo il numero dei buoni poeti. Tuttavia anche i più mediocri si trovano spesso sulla via della verità; qualche indizio più o meno vago di essa, lo hanno sempre. Ma è difficile seguire questi indizi: che cosa accadrà poi se li si trascura e li si disprezza? È questo l’errore che commettono, inventando i fatti, la maggior parte dei romanzieri. Ne è derivato quel che doveva derivarne, e cioè che la verità è sfuggita loro più spesso che a quelli che si sono tenuti più vicini alla realtà; ne è derivato che essi si sono preoccupati poco della verosimiglianza, sia nelle vicende che hanno immaginate sia nei caratteri dai quali hanno fatto scaturire queste vicende; e che a forza di inventare storie, situazioni nuove, pericoli inaspettati, contrasti eccezionali di passioni e di interessi, hanno finito col creare una natura umana che non somiglia in niente a quella che avevano sotto gli occhi, o, per meglio dire, a quella che non hanno saputa vedere. Di conseguenza l’epiteto di romanzesco è stato designato ad indicare generalmente, per quel che riguarda i sentimenti e i costumi, quel tipo particolare di falsità, quel tono artificioso, quei tratti convenzionali che contraddistinguono i personaggi dei romanzi.

(trad. A. Sozzi)

 

 Per approfondire

Sulla lettera a Chauvet, da Oilproject.it