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Montale, interviste e letture

I maestri del Novecento. Eugenio Montale

 

[trascrizione dell'intero filmato]

Mia vita, a te non chiedo lineamenti
fissi, volti plausibili o possessi.
Nel tuo giro inquieto ormai lo stesso
sapore han miele e assenzio.

Il cuore che ogni moto tiene a vile
raro è squassato da trasalimenti.
Così suona talvolta nel silenzio
della campagna un colpo di fucile.

[da Ossi di seppia]

Montale - Nel 1917 io avevo già scritto la prima delle poesie che poi sono state pubblicate, cioè quella sui muri e sui cocci di bottiglia sul muro, nel 1916. Purtroppo è entrata nelle antologie; purtroppo, perché dicono che è cacofonica, che i ragazzi non la capiscono.

[scheda]

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

M. - “Meriggiare” è la prima poesia che ho creduto meritevole di pubblicazione. Naturalmente prima ne ho fatto anche delle altre, che sono scomparse, non saranno mai pubblicate.

Intervistatore - 12 ottobre 1896 è la data di nasciata sua?

M. - Sì, la scoperta dell’America: non è un merito mio; forse pare che non sia neanche un merito di Colombo: si discute su questo (la scoperta, non il giorno).

I. - Quale fu il giocattolo che le piacque di più da bambino?

M. - Nessun giocattolo perché non ne ho mai avuto; e credo che anche i miei fratelli maggiori di me non ne avessero. Ma forse potrei citare un piccolo triciclo, ma lo usavo poco, perché il nostro giardino era pieno di sassolini e di ghiaia, e allora dopo qualche colpo di pedale io mi stancavo. Avevamo le biglie colorate, qualche piccolo oggetto di questo genere. Ma non ricordo di aver mai avuto giocattoli. E poi conoscevo pochi bambini, perché avevo dei fratelli più grandi di me, che andavano alla pesca, alla caccia, e allora io restavo piuttosto isolato.

I. - Quindi si divertiva con niente?

M. - Con niente, direi, guardando il mare quando c’ero, o dalla finestra.

I. - Le palline erano quelle di terracotta?

M. - Sì: rosse, verdi: si giocava così. Anche con le noci, le bocce fatte con le noci e con una nocciola come pallino.

IN LIMINE

Godi se il vento ch' entra nel pomario
vi rimena l' ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquiario.

Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell' eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.

Un rovello è di qua dall’erto muro.
Se procedi t’imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.

Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l'ho pregato, - ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine...

M. - Nella famiglia io ero l’unico che non avesse attitudini letterarie.

I. - E suo padre cosa faceva?

M. - Commerciante.

I. - Ma con attitudini letterarie?

M. - No: mio padre non ne aveva, ma dico dei fratelli e sorelle eccetera, ero l’unico che non avesse attitudini letterarie. Si svilupparono… Mi ricordo un professore che mi diceva “Lei non potrà mai scrivere sulla Domenica del Corriere”, come il massimo delle aspirazioni che poteva attribuirmi.

I. - Non la riteneva degno di arrivare a scrivere sulla Domenica del Corriere?

M. - No, no.

I. - Che cosa c’è stato: una specie di conversione letteraria nella sua vita?

M. - Ma, piuttosto lenta: non so da che cosa sia avvenuto. Forse da letture. Scoprii per esempio la scoperta della musica di Debussy mi fece un certo effetto. Questa poesia: “Minstrels”, che poi ebbe anche altri titoli, “Musica sognata”, ecc., è già un ricordo di questa… la pittura moderna, l’impressionismo, i poeti simbolisti, tutti questi, tutte queste influenze, anche gli inglesi: ho studiato da solo l’inglese, ora lo so meglio, ma insomma. Questo insieme di influenze fecero sì che a vent’anni avevo già, mi ero sviluppato già - diciamo - al di là delle previsioni.

[scheda]

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

I. - Lei dunque vive a Genova fino al 1927? Ecco, ora facendo un piccolo passo indietro, i suoi studi scolastici...

M. - Dopo le elementari andai da i reverendi padri barnabiti, ma poi lasciai quasi subito pervarie broncopolmoniti. Mia sorella, che era una eccellente umanista, mi dette un po' d'aiuto lei stessa.

I. - Durante la guerra lei fu richiamato nel '15-18?

M. - No fui chiamato, non richiamato: nel '17; restai fino ai primi del '20, o fine del '19, sotto le armi, fui ufficiale di fanteria.

I. - Nella sua poesia, negli Ossi, e poi nelle Occasioni, ci sono un paio di ricordi, uno famoso.

M. - Sì, c'è Valmorbia.

I. - E poi c'è un Mottetto

M. - Sì, ... due paesi distrutti dai bombardamenti; ora penso siano stati ricostruit. Ma è stata una guerra di posizione, la mia: il nemico non si vedeva: arrivavano schegge. Infatti ho perduto due comandanti di battaglione; c'erano delle perdite. C'erano delle spolette che piovevano in questa valle: era molto pericolosa la posizione.

Valmorbia, discorrevano il tuo fondo
fioriti nuvoli di piante agli àsoli.
Nasceva in noi, volti dal cieco caso,
oblio del mondo.

Tacevano gli spari, nel grembo solitario
non dava suono che il Leno roco.
Sbocciava un razzo su lo stelo, fioco
lacrimava nell'aria.

Le notti chiare erano tutte un'alba
e portavano volpi alla mia grotta.
Valmorbia, un nome e  ora nella scialba
memoria, terra dove non annotta.

I. - Mi pare che nel '25 hai pubblicato il primo libro, da Gobetti. Potresti raccontarmi l'incontro con Gobetti?

M. - C'eravamo scambiati delle cartoline. Poi andai a trovarlo a Torino in via Fabro. Suonai, e venne ad aprirmi un giovane, molto giovane, quasi imberbe, occhialuto; pensavo che fosse qualcun altro, non dico un servitore, perché Gobetti non poteva averne, ma dico qualche amico di famiglia; invece era proprio lui. Parlammo, non ricordo di che cosa, e lui mi disse e mi confermò che avrebbe pubblicato il libro, e poi ci lasciammo. Poi venne a Genova, perché lasciava l'Italia per le note ragioni politiche. Lo accompagnai alla stazione: ricordo che ci abbracciammo. E dopo pochi giorni, leggendo il giornale, ebbi la notizia che era morto, di morte diciamo non del tutto naturale; sì, naturale sì, ma non del tutto spontanea: perché aveva avuto molte bastonate precedentemente dai fascisti per le sue opinioni politiche.

Gloria del disteso mezzogiorno
quand'ombra non rendono gli alberi,
e piú e piú si mostrano d'attorno
per troppa luce, le parvenze, falbe.

Il sole, in alto, - e un secco greto.
Il mio giorno non è dunque passato:
l'ora piú bella è di là dal muretto
che rinchiude in un occaso scialbato.

L'arsura, in giro; un martin pescatore
volteggia s'una reliquia di vita.
La buona pioggia è di là dallo squallore,
ma in attendere è gioia piú compita.

I. - Quanto tempo c'è voluto per vendere la seconda edizione di Lanciano Carabba degli Ossi di seppia?

M. - Ma quella di Carabba coi disegnid i Scipione si vendette: non so in quanto tempo, perché poi fu ristampata abusivamente dopo, nel '40. La prima invece addirittura durò un giorno o due perché bruciò il magazzino e circa metà delle copie andarono così felicemente esaurite. La seconda aveva 500 esemplari, costava 15 lire. Mio padre si rifiutò di comprarla perché era troppo... Ignorava l'esistenza della prima edizione. Disse che 15 lire erano un'esagerazione.

[scheda]

Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

M. - Io non sono stato un poeta di quelli che muoiono giovani - diciamo così; però avevo l'impressione di esserlo, e quindi negli Ossi di seppia c'è un po' anche l'anticipazione di ciò che verrà dopo - diciamo così. Se uno volesse leggerne soltanto uno, potrebbe leggere gli Ossi di seppia, anche perché è più facile, dopo tutto, oggi specialmente è diventato facile; nel 1925 non era affatto facile: il professor Galletti trovò che era una cosa assurda, una pazzia. Invece non era affatto assurdo, anzi poeti molto più difficili erano nati trenta, quaranta, cinquanta anni prima di me, ma erano nati fuori d'Italia. Questa non è colpa mia; non è colpa neanche dell'Italia; è colpa non so di che cosa. Quindi gli Ossi di seppia, per un'iniziazione, per un primo assaggio, sono un libro purtroppo fondamentale. Ma credo dopo di avere fatto altri passi.

MEDITERRANEO

I
A vortice s’abbatte
sul mio capo reclinato
un suono d’agri lazzi.
Scotta la terra percorsa
da sghembe ombre di pinastri,
e al mare là in fondo fa velo
più che i rami, allo sguardo, l’afa che a tratti erompe
dal suolo che si avvena.
Quando più sordo o meno il ribollio dell’acque
che s’ingorgano
accanto a lunghe secche mi raggiunge:
o è un bombo talvolta ed un ripiovere
di schiume sulle rocce.
Come rialzo il viso, ecco cessare
i ragli sul mio capo; e via scoccare
verso le strepeanti acque,
frecciate biancazzurre, due ghiandaie. [...]

I. - Tu hai cominciato, hai esordito come cantante d’opera lirica?

M. - No, non ho esordito come cantante: avevo aspirazioni in questa direzione. Ma la morte del mio maestro [il baritono Ernesto Sivori] è stata decisiva per me, perché io avevo una specie di impegno morale di fargli fare una buona figura, di produrre - diciamo così - un allievo degno della sua gloria. E invece morendo mi sono disimpegnato da questo... E allora lui sognava di fare di me un baritono molto brillante nel registro acuto, che io possedevo, del resto: avevo il do sotto le righe, il la acuto, avevo una gamma molto vasta.

I. - Dopo la guerra del '15-18, questi studi vengono dopo?

M. - Sì vengono in gran parte dopo. Ho cantato “La calunnia” del Barbiere [di Siviglia, di Rossini] nel teatro di Feltre, ma il teatro era vuoto: io avevo dato una mancia al custode per potere calcare quel palcoscenico; però ricordo che, siccome non c'era poi l'orchestra, naturalmente, la mia voce era veramente tonante e riempiva quel piccolo teatro. «La calunnia è un venticello, / un'auretta assai gentile, / che insensibile...» eccetera, poi «come un colpo di cannon / come un colpo di cannon / un tremoto un temporale...» eccetera.

I. - E i tuoi studi finirono per la morte del tuo insegnante?

M. - Sì, per la morte del maestro. Già meditavo di darmi alla fuga, perché cominciavo a scrivere qualche articolo sul Lavoro di Genova, su qualche altro giornale, ma la morte del maestro fu decisiva: mi trovai così quasi spontaneamente su una sponda del tutto diversa. E poi non avrei resistito all'ambiente, non avrei resistito alla vita dell'artista lirico, che  piena di problemi, di sacrifici, e che impone queste due qualità così diverse e inconciliabili: il genio e l'imbecillità - diciamo così. Io non so se avessi il genio, certalmente no; ma certamente poi non ero concretamente provvisto neanche di imbecillità; quindi non si sa che cosa sarebbe venuto fuori da questo connubio.

Nel '27 sono andato a Firenze: ero segretario dell'editore Bemporad. Lui sperava che io potessi trovare un libro come Pinocchio, che gli avesse assicurato la prosperità dell'azienda per molti anni. Ma durante quell'anno non trovai Pinocchio. Ebbi poi una diminuzione dello stipendio dell'8%, imposto dal duce a tutti gli impiegati sia statali che privati.

Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l’alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.

Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole
freddoloso; e l’altre ombre che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.

[da Le occasioni]

M. - Fialmente presi stanza - diciamo così - non stanza perché era un sotterraneo, una specie di ipogeo - al Gabinetto Viesseux, che era una biblioteca nell'800 molto importante, e visitata da tutti gli stranieri.

I. - Il tuo incarico qual era lì?

M. - Ero direttore. È durato fino al '38; poi fui licenziato per ragioni politiche, e...

I. - Perché non eri iscritto al Partito Fascista?

M. - Sì, per questo. E volevano liquidarmi con la qualifica di commesso di libreria.

Nel '33 incontra Irma Brandeis, ebrea americana, studiosa di Dante e di Patristica. Le occasioni e altre poesie formano un canzoniere d'amore per Irma-Iride, detta Clizia, figura del mito e "inconsapevole cristofora".

Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l'oscura primavera
di Sottoripa.

Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzìo lungo viene dall'aperto,
strazia com'unghia i vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch'ebbi in grazia
da te.
E l'inferno è certo.

M. - A Firenze collaborai attivamente a Solaria. Il direttore era Carocci, poi più tardi lo affiancò Giansiro Ferrata, che era laureato da poco, e quelli furono gli anni migliori della rivista, insomma, perché una rivista in cui si parlava di letteratura straniera, si parlava di tanti argomenti, evitando il tasto della politica, e questo destò molti sospetti, tanto che una rivista che si faceva dall'altra parte, non alle “Giubbe Rosse” ma al “Paszkowski”, il caffè di fronte, che si chiamava L'Universale, diretta da Alberto Ricci, ci attaccava violentemente: diceva che eravamo tutti bigi, zoppi e anche dubbi dal punto di vista morale.

Il fiore che ripete
dall'orlo del burrato
non scordarti di me,
non ha tinte più liete
nè più chiare
dello spazio gettato tra me e te.

Un cigolìo si sferra, ci discosta,
l'azzurro pervicace non ricompare.
Nell'afa quasi visibile mi riporta all'opposta
tappa, già buia, la funicolare.

M. - Pascoli mi sembrava un poeta, certamente molto notevole, ma troppo dolciastro per il mio temperamento, troppo sentimentale, troppo dolciastro: questa era la mia opinione. D'Annunzio sovrastava soprattutto come personaggio, era un mostro, un monstrum - diciamo così -, quindi era difficile in quel momento rendersi conto del suo valore di poeta. E ancora oggi credo è in discussione, e credo che un po' di lui sia rimasto appicciato a tutti i poeti che sono venuti dopo. Ma d'altronde, come ho già detto altre volte, senza Victor Hugo non sarebbe sorto Baudelaire: la situazione per analogia potrebbe essere questa.

Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.

Un freddo cala... Duro il colpo svetta.
E l’acacia ferita da sè scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.

M. - Era un gruppo di poesie piuttosto unitario, una dozzina circa di poesie tutte sullo sfondo della guerra, sentita però in modo piuttosto pessimistico, non era una guerra entusiasmante per me. Non lo era neanche la prima, ma allora avevamo l'illusione che fosse necessaria; quest'ultima addirittura fu rifiutata da tutti - diciamo. E allora pubblicarle da chi? dove? come? da Mondadori forse non era possibile un libro così. Gianfranco Contini le portò a Lugano, dove ebbe la prima edizione: oggi è una rarità; anche la seconda edizione di Barbera nel '45 è una rarità.

LA BUFERA
La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,
(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell'oro
che s'è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)
il lampo che candisce
alberi e muro e li sorprende in quella
eternità d'istante - marmo manna
e distruzione - ch'entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l'amore a me, strana sorella, -
e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa...
Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,
mi salutasti - per entrar nel buio.
[da La Bufera e altro]
M. - La mia predilezione [ai miei libri] va naturalmente a quelli che hanno avuto minore diffusione: questo è giusto perché i padri amano sempre, o dovrebbero amare sempre i figli che sono riusciti meno bene. Ma questo spero che non sia il mio caso in ogni modo. Quindi preferisco La Bufera alle Occasioni; e quando ci sarà il quarto libro, forse preferirò il quarto libro ai precedenti. E quindi ho questa debolezza: siccome gli Ossi di seppia hanno avuto 14 o 15 edizioni, le Occaisoni ne avranno avuto soltanto 10, 9, La Bufera 4, così naturalmente la mia predilezione è inversamente proporzionale all'esito commerciale - diciamo così - esito commerciale a cui non ho mai pensato, e che chiaramente è una sorpresa per me. Esito poi al quale il fisco attribuisce delle proporzioni mastodontiche - diciamo così - perché ho ricevuto anche una dichiarazione di tasse dove c'era scritto che triplichiamo le tasse per "raggiunta notorietà". Insomma, la mia affezione va sempre all'ultimo libro.

L'ANGUILLA

L’anguilla, la sirena
dei mari freddi che lascia il Baltico
per giungere ai nostri mari,
ai nostri estuari, ai fiumi
che risale in profondo, sotto la piena avversa,
di ramo in ramo e poi
di capello in capello, assottigliati,
sempre più addentro, sempre più nel cuore
del macigno, filtrando
tra gorielli di melma finché un giorno
una luce scoccata dai castagni
ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta,
nei fossi che declinano
dai balzi d’Appennino alla Romagna;
l’anguilla, torcia, frusta,
freccia d’Amore in terra
che solo i nostri botri o i disseccati
ruscelli pirenaici riconducono
a paradisi di fecondazione;
l’anima verde che cerca
vita là dove solo
morde l’arsura e la desolazione,
la scintilla che dice
tutto comincia quando tutto pare
incarbonirsi, bronco seppellito;
l’iride breve, gemella
di quella che incastonano i tuoi cigli
e fai brillare intatta in mezzo ai figli
dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
non crederla sorella?

Nel '49 incontra Maria Luisa Spaziani, poeta, detta Volpe, ispiratrice dei Madrigali privati.

M. - Io a 52 anni trovai un impiego: avevo perduto un impiego al Gabinetto Viesseux, istituzione molto importante ma completamente ignota fuori di Firenze, tanto che la scrivono sempre in modo sbagliato. A 52 anni ebbi un impiego fisso in un giornale [Corriere della Sera], mi pareva di essere ancora abbastanza giovane: credo di avere svolto le mie mansioni in modo corretto, se non impeccabile. E poi mi divertì molto la vita di redazione, trovare degli amici più giovani, dei direttori buoni, pieni di simpatia, tutti quanti debbo dire. E allora insomma... In realtà faccio ancora parte dell'onorata corporazione dei giornalisti, sebbene sia in contestazione la mia anzianità: secondo un ente ho certa anzianità, secondo altri ne ho un'altra. Io stesso non saprei dire la mia età, perché giuridicamente non viene riconosciuta da nessuno.

«Arsenio» (lei mi scrive), «io qui “asolante”
tra i miei tetri cipressi penso che
sia ora di sospendere la tanto
da te per me voluta sospensione
d’ogni inganno mondano; che sia tempo
di spiegare le vele e di sospendere
l’epoché.

Non dire che la stagione è nera ed anche le tortore
con le tremule ali sono volate al sud.
Vivere di memorie non posso più.
Meglio il morso del ghiaccio che il tuo torpore
di sonnambulo, o tardi risvegliato.»

M. - Non si può passeggiare a Milano, è difficile; ma certo andare a piedi così è una cosa deliziosa. Il podismo: mi piace soltanto la maratona. Qualche volta ho sognato di vincere una maratona, così, partendo e mantenendomi in ultima posizione fino agli ultimi chilometri; dopo, sospinto da una forza soprannaturale, scattare come una freccia e giungere primo al traguardo. Ma questo vorrei che mi succedesse ora, alla mia età, insomma, così in modo da sbalordire tutti, occupare le pagine dei giornali: sarebbe un trionfo molto superiore a quello che un altro poeta potrebbe augurarsi.

BOTTA E RISPOSTA

II
Uscito appena dall'adolescenza
per metà della vita fui gettato
nelle stalle d'Augìa.

Non vi trovai duemila bovi, né
mai vi scorsi animali;
pure nei corridoi, sempre più folti
di letame, si camminava male
e il respiro mancava; ma vi crescevano
di giorno in giorno i muggiti umani.

Lui non fu mai veduto.
La geldra però lo attendeva
per il presentat-arm: stracolmi imbuti,
forconi e spiedi, un'infilzata fetida
di saltimbocca. Eppure
non una volta Lui sporse
cocca di manto o punta di corona
oltre i bastioni d'ebano, fecali.

Poi d'anno in anno – e chi più contava
le stagioni in quel buio? - qualche mano
che tentava invisibili spiragli
insinuò il suo memento: un ricciolo
di Gerti, un grillo in gabbia, ultima traccia
del transito di Liuba, il microfilm
d'un sonetto eufuista scivolato
dalle dita di Clizia addormentata,
un ticchettìo di zoccoli (la serva
zoppa di Monghidoro)
finché dai cretti
il ventaglio di un mitra ci ributtava,
badilanti infiacchiti colti in fallo
dai bargelli del brago.

Ed infine fu il tonfo: l'incredibile.

A liberarci, a chiuder gli intricati
cunicoli in un lago, bastò un attimo
allo stravolto Alfeo. Chi l'attendeva
ormai? Che senso aveva quella nuova
palta? e il respirare altre ed eguali
zaffate? e il vorticare sopra zattere
di sterco? ed era sole quella sudicia
esca di scolaticcio sui fumaioli,
erano uomini forse,
veri uomini vivi
i formiconi agli approdi?
...

(Penso
che forse non mi leggi più. Ma ora
tu sai tutto di me,
della mia prigionia e del mio dopo;
ora sai che non può nascere l'aquila
dal topo).

[da Satura]

M. - Io ho cercato dipingendo di ritrovare una certa ingenuità primitivistica dentro di me, che naturalmente avevo perduto scrivendo versi. Credo di averla trovata, ecco: mi diverto di più a dipingere che a scrivere, ma se insistessi molto, forse non mi divertirei più nemmeno a dipingere.

Io veramente ci tengo molto ai miei quadri; anzi io sospetto che i miei quadri un giorno saranno la sola mia professione. Siccome mia moglie e anche la mia gentilissima Gina [domestica] dicono che nel piccolo appartamento i colori a olio puzzano, e poi sporcano soprattutto, mi sono dedicato a dipingere con dei piccoli gessi scolastici, così, che poi però soffio con lo spruzzatore per fissarli.

Ho scritto 28 brevi poesie in memoria di mia moglie, scomparsa quattro anni or sono. Il titolo di Xenia deve intendersi appunto nel senso di "offerta, dono", e non deve far pensare al sarcasmo di Marziale, per quanto queste poesie abbiano un carattere spesso epigrammatico, ma appunto abbiano questo senso soltanto di dono e di ricordo.

Caro piccolo insetto
che chiamavano mosca non so perché,
stasera quasi al buio
mentre leggevo il Deuteroisaia
sei ricomparsa accanto a me,
ma non avevi occhiali,
non potevi vedermi
né potevo io senza quel luccichìo
riconoscere te nella foschia.

M. - La poesia va diventando certamente sempre più prosastica, ma credo che rimarrà sempre una distinzione, dato anche il carattere più sintetico della poesia, insomma.

La prosa non solo ha un altro pubblico, di solito, ma ha anche nell'interno dello scrittore ha anche una sua sede, diciamo, che è un po' diversa per la prosa. Ha una sua musica, ma una musica che si svolge in senso più orizzontale, mentre la poesia ha bisogno di una certa verticalità della parola. Tant'è vero che poi ci sono anche delle teorie a partire dal romanticismo, anche prima del romanticismo, che negano la possibilità del poema, insomma, perché la poesia è corta per definizione. E quindi sono due canali diversi, la poesia e la prosa, che possono anche unirsi, insomma, nella vita di una persona.

Dalle finestre si vedevano dattilografe.
Sotto il vicolo, tanfo di scampi fritti,
qualche zaffata di nausea dal canale.
Bell'affare a Venezia
affacciarsi su quel paesaggio e lei
venuta da lontano. Lei che amava solo
Gesualdo, Bach e Mozart e io l'orrido
repertorio operistico con qualche preferenza
per il peggiore.
[...]
Torniamo col battello scavalcando becchime,
comprando keepsakes cartoline e occhiali scuri sulle
bancarelle.
Era, mi pare, il '34, troppo giovani o troppo strani
per una città che domanda turisti e amanti anziani.

[da Prosa veneziana]

M. - Credo che sia stato Francesco Flora il primo che ha parlato di "ermetismo": si riferiva - credo - particolarmente a Ungaretti. Poi altri adottarono questa parola in un'accezione sempre meno negativa; a un certo punto parve che l'ermetismo fosse una frazione - diciamo - dell'attuale decadentismo generale di tutta la cultura europea, dell'arte europea. In realtà io credo che il termine sia rimasto in uso esclusivamente in Italia, che non abbia fortuna e che sia destinato a scomparire, perché una poesia tecnicamente scaltra e psicologicamente sottile e allusiva e ambigua è sempre esistita: possiamo riferirci addirittura al "dolce stil nuovo", al presunto cifrario degli stilnovisti, ai sonetti di Shakespeare, anche questi oggetto di indagini di questo genere. In realtà, poi la scuola lionese, Maurice Scève, parliamo di Gòngora, parliamo del gesuita Hopkins. Insomma: è sempre esistita da quando esiste una poesia qui in occidente, è sempre esistita una poesia che si può definire "ermetica", ma in realtà è una poesia, diciamo pure, moderna.

I poeti contemporanei sono troppi, sono molti. Io salverei per esempio le opere di Ungaretti, le opere di Saba; i critici dicono anche le mie, ma non potrei giudicare il mio caso. Ci sono poi dei poeti più giovani, come Luzi, Sereni, Caproni, Pasolini, altri che sono molto apprezzabili e ancora molto promettenti.

IL PIRLA

Prima di chiudere gli occhi mi hai detto pirla,
una parola gergale,
non traducibile.
Da allora
me la porto addosso
come un marchio che resiste alla pomice.
Ci sono anche altri pirla nel mondo
ma come riconoscerli?
I pirla non sanno di esserlo.
Se pure ne fossero informati
tenterebbero di scollarsi
con le unghie quello stimma.

[da Diari del ’71 e del ’72]

M. - Milano è una città molto ospitale, fatte alcune eccezioni. Uno dei vantaggi è che non esiste un ambiente letterario, non esistono luoghi dove si incontrano le stesse facce, gli stessi amici, eccetera; ognuno fa una vita separata e indipendente. Del resto, io conosco poco Milano, perché ci abito appena da 19 anni, e forse non finirò la mia vita qui.

I. - Dove vorresti andare?

M. - A, non lo so, non lo so: in campagna, forse in Toscana, non so.

I. - Ma non rimpiangi Firenze?

M. - Sì, la rimpiango; ma è diventata rumorosa anche Firenze. Molti miei amici sono morti, ma potrebbe darsi che andando là - io ho un certo fiuto - potrebbe darsi che io trovassi là ancora qualche persona interessante.

IL RONDONE

Il rondone raccolto sul marciapiede
aveva le ali ingrommate di catrame,
non poteva volare.
Gina che lo curò sciolse quei grumi
con batuffoli d'olio e di profumi,
gli pettinò le penne, lo nascose
in un cestino appena sufficiente
a farlo respirare.
Lui la guardava quasi riconoscente
da un occhio solo. L'altro non si apriva.
Poi gradì mezza foglia di lattuga
e due chicchi di riso. Dormì a lungo.
Il giorno dopo all'alba riprese il volo
senza salutare.
Lo vide la cameriera del piano di sopra.
Che fretta aveva fu il commento. E dire
che l'abbiamo salvato dai gatti. Ma ora forse
potrà cavarsela.

M. - Se il risultato della psicoanalisi fosse di razionalizzare completamente l'uomo, liberandolo dai demoni, dalle turbe demoniche che si annidano nel suo inconscio, allora io non so se il giuoco varrebbe la candela, perché l'uomo non è soltanto quello che è, ma è anche quello che vorrebbe essere.

LUNI E ALTRO
1938

Arrestammo la macchina
all’ombra di alcune rovine.
Qui sarà sbarcata la jeunesse dorée
e dopo secoli vi sostò Gabriel
per compiervi la pessima delle sue prove.
Piú modesti dobbiamo contentarci
di poco: il Poveromo, La Fossa dell’Abate.
Troppe cose, dicesti. Ne ho abbastanza
di cadaveri illustri.

                               E ripartimmo
senza nessuna nostalgia: quel poco
che ancora oggi resiste.

M. - Posso dire che ho fatto quello che mi pareva vicino al mio temperamento, alle mie possibilità - diciamo. Ma che poi possono esserci delle riuscite in altri campi, o anche nello stesso campo, delle riuscite più importanti: questo non c'è dubbio, insomma. Non mi sono mai montato la testa.