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Saba, interviste e letture

Umberto Saba. Il Canzoniere

di Gabriella Sica (Rai, 1970?)

 

[trascrizione dell'intervista e delle poesie]

Sebbene da molti anni ammalato ed in condizioni di vita quanto mai dolorose (sono questi i motivi per i quali non ricevo nessuno, non rispondo alle lettere ed agli inviti: fatti questi che gli altri scambiano per scortesia, o ancora peggio per orgoglio - orgoglio di cosa? - dove non sono che l’effetto di una lunga, troppo lunga sofferenza), non ho saputo purtroppo resistere alle affettuose e reiterate insistenze di alcuni amici. Così eccomi qui a dirvi come potrò e saprò, alcune mie vecchie poesie intitolate "Cinque poesie per il gioco del calcio" composte nel 1933-34, quando sono stato anch’io per un po’ di tempo tifoso.

CINQUE POESIE PER IL GIOCO DEL CALCIO

I - Squadra paesana

Anch’io tra i molti vi saluto, rosso-
alabardati,
sputati
dalla terra natia, da tutto un popolo
amati.
Trepido seguo il vostro gioco.
Ignari
esprimete con quello antiche cose
meravigliose
sopra il verde tappeto, all’aria, ai chiari
soli d’inverno.

Le angoscie
che imbiancano i capelli all’improvviso,
sono da voi così lontane! La gloria
vi dà un sorriso
fugace: il meglio onde disponga. Abbracci
corrono tra di voi, gesti giulivi.

Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V’ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente - ugualmente commosso.

Che cos’è, in fondo, un poeta, se poeta davvero? L’ho già detto altrove: è un bambino che si meraviglia delle cose che accadono a lui stesso diventato adulto. Rimane quindi nell’intimo della sua natura molto, troppo della prima infanzia, della preistoria sua e del mondo.

Umberto Poli nasce il 9 marzo 1883 nel Ghetto di Trieste. Prima ancora della sua nascita, il padre Ugo Edoardo Poli, di religione cristiana, abbandona la moglie, Felicita Rachele Coen, ebrea. Umberto viene allevato dalla balia Peppa Sabaz (o Saber), slovena e cristiana, "madre di gioia" da cui deriverà, forse, il nome Saba.

Quando nacqui mia madre ne piangeva,
sola, la notte, nel deserto letto.
Per me, per lei che il dolore struggeva,
trafficavano i suoi cari nel ghetto.

Da sé il più vecchio le spese faceva,
per risparmio, e più forse per diletto.
Con due fiorini un cappone metteva
nel suo grande turchino fazzoletto.

Come bella doveva essere allora
la mia città: tutta un mercato aperto!
Di molto verde, uscendo con mia madre

io, come in sogno, mi ricordo ancora.
Ma di malinconia fui tosto esperto;
unico figlio che ha lontano il padre.

*

Mio padre è stato per me "l’assassino";
fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.
Allora ho visto ch’egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.

Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d’una donna l’ha amato e pasciuto.

Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.

"Non somigliare - ammoniva - a tuo padre":
ed io più tardi in me stesso lo intesi:
Eran due razze in antica tenzone.

Quando avevo 14 anni frequentavo a Trieste la quarta classe del ginnasio Dante Alighieri. Si era negli ultimi mesi, o giorni, dell’anno scolastico 1896-1897. Il mio professore di greco e di latino passava per essere, e in parte era, un severo ma giusto. Ora accadde che, per cause imprecisate, egli mi prese ad un tratto in odio: ma chi osava, regnando Francesco Giuseppe, parlare non interrogato ad un superiore? ed a quel superiore poi! Il quale accomodò poi le cose in un colloquio che ebbe con mia madre: mi avrebbe ugualmente elargito un sufficiente in greco, a patto che la povera donna gli desse la sua parola d’onore che, a promozione avvenuta, mi avrebbe fatto cambiare istituto. Bruciai in un falò di gioia i testi classici, divenuti per me, per mancanza d’amore, troppo difficili, impossibili addirittura. Frequentai per poco tempo l’Imperial Regia Accademia di Commercio e di Nautica e presi quindi un impiego, con la speranza di diventare - così sognavo allora - un bravo, un onesto, uno stimato commerciante.

Il bianco immacolato signore: ricordi di Gabriele D’Annunzio.

Quando gli feci alla Versilia la mia prima e ultima visita, avevo poco più di venti e il Vate poco più di quarant’anni. Ed ecco che, di tutte le cose più straordinarie le quali si attendeva in casa di Gabriele D’Annunzio la mia stupida giovinezza, quella che più splende oggi nella mia memoria è un piatto di pasta al pomodoro.

Egli mi pregò, se non ero troppo stanco del viaggio e la cosa non mi dava in quel momento troppo fastidio, di recitargli qualche mia poesia. Ammirò, o finse ammirare: ammirare era un poco il suo mestiere; disse che la mia poesia aveva una grande dolcezza; che egli alla mia età - e qui trasse un sospiro come d’invidia - non ne aveva scritte di così belle; e che, se permettevo, mi avrebbe raccomandato al suo editore. Permisi, quasi con le lacrime agli occhi. Da Firenze poi gli spedii il manoscritto che, fra dubbi, sentimenti varianti d’incerta riuscita, mi era costato un mese di spasimi. Ma il grande smemorato né rispose, né mi rimandò mai il sudato manoscritto.

Lina, le nostre due anime sole
godono della primavera in fiore,
tutta in fiore nel buon tepido sole
e nel tripudio per te del mio cuore.

Trieste e una donna (1910-1912)

A MIA MOGLIE

Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba
pettoruta e superba. [...]

*

QUELLO CHE RESTA DA FARE AI POETI (1911)

Ai poeti resta da fare la poesia onesta.

La serena disperazione (1913-1915)

Dopo lavori saltuari, da direttore di cinema a scrittore di manifesti pubblicitari, trova "un lavoro per vivere" acquistando nel ’19 in via San Nicolò una libreria antiquaria che sarà per sempre il suo rifugio.

DE GALLO ET LAPIDE

Dicevo un giorno al buon Carletto: «Dopo
anni che lavoriamo assieme – trenta,
io credo, o ventisette almeno; è stato,
buono o cattivo, il tuo destino – appena
oggi ho capito chi sei. Sei vivente
ed agente una favola d’Esopo.
Tutte, e in particolare una». Non chiese
quale; o temesse, nel confronto, offese;
o, quando estraneo ai suoi negozi, poco
curi il mio dire. «Voglio dire quella
del gallo e della pietra preziosa.
Come la scorse nel letame: – Va’ –,
le disse; – tu vuoi farmi ricco invano.
Nulla è a un gallo un topazio –. E l’affamato
l’accusava, raspando, di non essere,
invece, un chicco d’orzo». «Giusto. Ma,
se poteva parlare, perché il gallo –
disse alfine Carletto, ed ovvia cosa
gli parve – non andò da un gioielliere?
Gli avrebbe dato due sacchi di grano
in cambio. O anche d’orzo, a suo piacere».

Carlo Cerne [il commesso della libreria] - Saba veniva qui alla mattina, e aveva in testa una poesia da finire o meno, ma la mia presenza gli dava fastidio, in quel momento lì, e mi pregava, anzi mi pagava, per andare a prendere un caffè nel bar dirimpetto e pregandomi di tornare il più tardi possibile. Ma io, dopo mezz’ora che ero assente, sapendo che dovevo fare un po’ di cose in libreria, ritornavo, E lui però non aveva finito il suo lavoro di rifinitura della poesia che aveva in testa e allora mi pregava: "Guarda, ti pago un altro caffè: torna più tardi che puoi". E allora io andavo, e aspettavo che mi chiamasse lui.

Umberto Saba - Era un caro uomo il vecchio Schmitz. Dopo le lodi specialmente stampate ai suoi romanzi, nulla gli piaceva tanto come raccontare agli amici i ricordi della sua lunga attività commerciale. Ne udii più d’uno nella bottega di via San Nicolò, dov’egli veniva a trovarmi quasi tutte le sere, e dove oggi cerco d’entrare il meno possibile, tanti e tanto tristi sono per la mia vecchiaia i ricordi che vi si affollano.

Cose leggere e vaganti (1919)

POESIA GIAPPONESE

Voi lo sapere, amici, ed io lo so
Anche i versi son fatti come bolle
di sapone; una sale e un’altra no.

Nel ’21, con il marchio editoriale della sua libreria esce Il Canzoniere, "opera di una vita". Nel ’45 presso Einaudi uscirà l’edizione accresciuta del Canzoniere. Saba scrive di aver ritrovato da solo "il filo d’oro della tradizione italiana" da Petrarca a Parini, Manzoni e Leopardi. E anche, appassionato della musica di Giuseppe Verdi, i librettisti di opera.

Una poesia della maturità (1928)

PRELUDIO

Oh, ritornate a me voci d’un tempo,
care voci discordi!
Chi sa che in nuovi dolcissimi accordi
io non vi faccia risuonare ancora?

L’aurora
è lontana da me, la notte viene.
Poche ore serene
il dolore mi lascia; il mio e di quanti
esseri ho intorno.
Oh, fate a me ritorno
voci quasi obliate!

Forse è l’ultima volta che in un cuore
– nel mio – voi v’inseguite.
Come i parenti m’han dato due vite,
e di fonderle in una io fui capace,
in pace
vi componete negli estremi accordi,
voci invano discordi.
La luce e l’ombra, la gioia e il dolore
s’amano in voi.
Oh, ritornate a noi
care voci d’un tempo!

*

A Giacomo De Benedetti, Trieste, settembre 1929
Un giorno venne a trovarmi un amico e mi consigliò, probabilmente per dire qualcosa, di tentare una cura psicanalitica. Forse saprai che Trieste è la sola città d’Italia la quale possieda un medico che si occupi di cure psicanalitiche, uno dei migliori allievi di Freud e una persona meravigliosa: il dottor Weiss. Già da molti anni lottavo con l’idea di fare o non fare questa cura, ma troppe erano le resistenze che vi si opponevano, di carattere interno ed esterno. Sarebbe inutile che te le descrivessi ora, ma una delle principali fra le esterne era la falsa interpretazione di un passo di Freud dal quale io avevo arguito che il mio era un caso inguaribile. Ma la disperazione mi spinse a tentare. Che cosa devo dirti, Giacomino mio? Un mondo nuovo apparve davanti al mio spirito. Incominciai quello che Nietzsche chiamava, alludendo ad altro, la caccia grossa nel regno della psicologia. E devo dire una volta per tutte, guarisca io o non guarisca, la psicanalisi è una delle più grandi cose che siano state scoperte in questo secolo.

Il piccolo Berto (1929-1931) A Edoardo Weiss

IL FIGLIO DELLA PEPPA

Le rondini
han fatto il nido intorno alla casetta,
dove mi accoglie colei che mi aspetta
ogni domenica sera; il sorriso,
solo a me dolce, del suo vecchio volto
tigrino.

Mi accoglie come accoglieva il bambino
quando saliva beato alla povera
casa della sua balia. Paradiso
era al fanciullo, è paradiso ancora
all’uomo in lotta colla vita. In tavola
mette l’usata cena; a lungo parla
di cose vive a noi soli; mi narra
come, morto il suo figlio unico, in luogo
m’ebbe di quello; il suo dolore quando
anch’io le fui, senza sua colpa, un giorno
rubato. [...]

Parole (1933-1934)

TRE MOMENTI

Di corsa usciti a mezzo il campo, date
prima il saluto alle tribune. Poi,
quello che nasce poi,
che all’altra parte rivolgete, a quella
che più nera si accalca, non è cosa
da dirsi, non è cosa ch’abbia un nome.

Il portiere su e giù cammina come
sentinella. Il pericolo
lontano è ancora.
Ma se in un nembo s’avvicina, oh allora
una giovane fiera si accovaccia
e all’erta spia.

Festa è nell’aria, festa in ogni via.
Se per poco, che importa?
Nessun’offesa varcava la porta,
s’incrociavano grida ch’eran razzi.
La vostra gloria, undici ragazzi,
come un fiume d’amore orna Trieste.

Carlo Cerne - Sono stato io a portarlo alla partita. Io sono tifoso della Triestina dal 1918 addirittura, e in quel periodo lì la Triestina andava molto bene, e tutta la città ne parlava. E allora anche Saba volle vedere questa squadra, e da lì ebbe origine, insomma, le quattro poesie che scrisse sui rosso-alabardati.

GOAL

Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce,
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla – unita ebbrezza – par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.

Presso la rete inviolata il portiere
l’altro – è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasto sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa – egli dice – anch’io son parte.

Altro difetto dei poeti: dipendere un po’ troppo dall’amore, dall’approvazione degli altri, e reagire in modi strani, a volte perfino violenti, se quell’amore e quella approvazione vegono loro negati.

Ultime cose (1934-1943)

Aggiungo all’ultimo momento una breve poesia, scritta più tardi, nel 1936, intitolata "Sera di febbraio".

SERA DI FEBBRAIO

Spunta la luna.
                            Nel viale è ancora
giorno, una sera che rapida cala.
Indifferente gioventù s’allaccia;
sbanda a povere mète.
                                        Ed è il pensiero
della morte che, infine, aiuta vivere.

Mediterranee

AMAI

Amai trite parole che non uno
osava. M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica, difficile del mondo

[...]

"Fiera di San Nicolò" l’ho scritto a Trieste, durante la guerra, nel 1942. In quel viale XX settembre dove, per la festa del santo dei fanciulli, ha luogo appunto una specie di fiera. Il monello che aggredisce con un petardo la servotta, lo schiaffo che egli ne riceve in cambio, sono una scenetta familiare - penso - a voi tutti, che, se non proprio questa, ne avrete veduta qualche altra molto a questa simile.

FIERA DI SAN NICOLÒ

Cala l’umida nebbia della sera
lungo gli alberi spogli. Vuoi tu ancora
San Nicolò, fra tante afflitte cose,
farmi di umana tenerezza un dono?

Mi riporti tra i vivi a una servotta,
la mano alzata sul monello come

le si faceva vicino, sparava
sotto i suoi piedi un petardo. Alla botta
chiaro visino con il naso in su,
di bianco e rosa, si mostrò vermiglio.

[...]

In seguito ai provvedimenti razziali, dal ’43 Saba si rifugia a Firenze dove cambia "undici domicilii" aiutato anche da Eugenio Montale. Subito dopo la guerra va per qualche mese a Roma.

Eugenio Montale - E visitai Saba nel suo negozio: avevo già letto il Canzoniere triestino, e lui fu molto cordiale con me, mi portò in via Francesco Crispi dove abitava, mi recitò la sua poesia "La capra"... no "il cane"

Il cane,
bianco sul bianco greto,
segue inquieto
un’ombra,

la nera 
ombra d’una farfalla,
che su lui gialla [e poi fece così]
volteggia.

Questa fu la prima poesia che mi recitò.

UCCELLO DI GABBIA

Tenorino di grazia egli le strofe
non sa dell’usignuolo e non ha il cuore
caldo del merlo.

Pago a due foglie di radicchio, in gabbia,
dov’è nato non mette angoscia; libero 15
per la stanza mi viene, e a quelle, incontro.

I miei risvegli sono un poco meno
tristi per lui che alla finestra i passeri
richiama: aeree zuffe. Ed io dal letto
la sua nessuna meraviglia godo.

"Maternità", un episodio del mercato nero, raccontino scritto nel 1946.

Nel già remoto 1945, sono vissuto per alcuni mesi a Roma. Avevo - dice un mio verso nostalgico - "Roma e la felicità", una felicità molto - come ho dovuto constatare ben presto - labile e provvisoria, fatta, come tutte le felicità, di nulla. Sotto un porticato nelle vicinanze di piazza del Popolo, dove anche allora molte cose si comperavano e si vendevano, facevo ogni giorno la provvista di sigari toscani da rompere poi nella pipa, privo dei quali, avrei sentito subito la mia illusoria felicità mutarsi in vera inquietudine.

Uccelli - Quasi un racconto

RISVEGLIO

Rissano tutto il giorno; a notte dormono,
come gli altri uccelletti, piuma a piuma.
(A riparo suppongo di un nemico,
qui dove sono, improbabile). Sveglio
prima ancora dei passeri, tra poco,
lo so, mi chiameranno. Creature
di Dio e del sole, oggi per voi ricordo
la mia balia adorata, lei che prima
mi regalava un lucherino e, ignara
del mio destino, m’insegnò ad amarvi.

Nel dopoguerra comincia l’ultima felice stagione della poesia sabiana, da Uccelli a Quasi un racconto, che andrà ad accrescere Il Canzoniere. Ma è anche la stagione felice della prosa, dalle Scorciatoie a Ernesto. Nel ’53 riceve la laurea ad honorem dall’Università "La Sapienza" di Roma.

Voi illustri accademici, pur sapendo queste cose avete invece voluto premiare un poeta, conferendogli l’onore di essere, sia pure platonicamente, uno dei vostri. Accetto con gratitudine il dono che mi avete fatto. ed attenuo il senso di rimorso che l’accompagna col pensiero già espresso che, pensando a me, avete pensato anche a Trieste. Sensibile a quanto le viene dall’Italia, dal paese che, malgrado i suoi difetti - e chi non ne ha? - ed ogni considerazione politica a parte, è il più dolce del mondo, quello nel quale è più dolce vivere e morire, vivere soprattutto. E, quando si è giovani, amare. Trieste, dico, deporrà per un momento la sua grazia scontrosa, e sarà lieta di sapere onorato da voi un suo cittadino.

*

TREDICESIMA PARTITA

Sui gradini un manipolo sparuto
si riscaldava di se stesso.
                                               E quando
- smisurata raggiera - il sole spense
dietro una casa il suo barbaglio, il campo
schiarì il presentimento della notte.
Correvano sue e giù le maglie rosse,
le maglie bianche, in una luce d’una
strana iridata trasparenza. Il vento
deviava il pallone, la Fortuna
si rimetteva agli occhi la benda.
Piaceva
essere così pochi intirizziti
uniti,
come ultimi uomini su un monte,
a guardare di là l’ultima gara.

*

Trieste 8 novembre 1856
Caro don Fallani, voglio raccontarle un fatto che mi è accaduto alcuni mesi fa, prima che portassi la Lina in ospedale. Quando mia moglie era ancora a casa, le ho parlato un giorno a lungo di Gesù, non - badi - di Gesù Cristo, ma di Gesù semplicemente. Le dissi: "Lina mia, vuoi che ci baciamo in Gesù?" La povera vecchia mi rispose: "Magari!" Abbiamo provato entrambi un momento di grande dolcezza, ci siamo baciati e abbiamo pianto.

*

MOMENTO

Gli uccelli alla finestra, le persiane
socchiuse: un’aria d’infanzia e d’estate
che mi consola. Veramente ho gli anni
che so di avere? O solo dieci? A cosa
mai mi ha servito l’esperienza? A vivere
pago a piccole cose onde vivevo
inquieto un tempo.

*

Gorizia 27 novembre 1956
Mio caro don Fallani, ieri nel pomeriggio ho sepolto la mia povera Lina, la quale mi lasciò, oltre al suo ricordo, come una specie di viatico, la bellezza estrema, la nobiltà, la pace che presero i suoi lineamenti nella morte. Dio le concesse una morte serena. Mentre la bara veniva messa nel cunicolo a lei destinato, chiesi al sindaco il permesso di dire due parole. Lessi in italiano ad alta voce il Padre Nostro, seguendo un moto del cuore, per il quale mi feci prestare dai buoni padri la sudetta preghiera, quella preghiera che conoscevo - si può dire - da sempre, è così bella, così grande, così universale che o pregare non serve, o se serve, non ce n’è una al mondo che l’uguagli. Chiunque può dirla in qualunque momento e a qualunque fede appartenga. Dicendola, mi sentii ancora una volta in comunione con la mia Lina, che ogni volta si commoveva. L’abbraccia il suo povero Saba, rimasto - oltre a tutto il resto - solo ormai sulla terra.

Saba muore nel ’57 a Gorizia.

Mi piacerebbe, adesso che sono vecchio, dipingere con tranquilla innocenza il mondo meraviglioso.

Buona sera, e grazie.

I VECCHI

I vecchi dei villaggi hanno (se l’hanno)
il tabacco. Hanno il vino rosso. A pochi
passi il temuto cimitero. Ed io
(non quello temo, ai vinti unico pio)
avrei dovuto guarire, sottrarmi
un farmaco letale, caricarmi
di pesi sempre piú gravi (ed è questa
– lo so – la legge della vita); darmi
promettevano in cambio, essi, una festa.