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Tzara, Arte o bellezza?

Tzara: l’arte non è la bellezza, che è morta

Parola del fondatore del dadaismo

 

Tristan Tzara (pseudonimo di Samuel Rosenstock, 1896-1963)
da “Manifesto Dada”, Dada 3, Zurigo 1918

 

DADÀ NON SIGNIFICA NULLA

Se lo si giudica futile e non si vuol perdere tempo per una parola che non significa nulla... Il primo pensiero che ronza in questi cervelli è di ordine batteriologico: trovare l’origine etimologica, storica o perlomeno psicologica. Si viene a sapere dai giornali che i negri Kru chiamano la coda di una vacca sacra: dadà. Il cubo e la madre in non so quale regione italiana: dadà.

Il cavallo a dondolo, la balia, doppia conferma russa e romena: dadà. Alcuni giornalisti eruditi ci vedono un’arte per neonati, per altri santoni, versione attuale di gesùcheparlaifanciulli, è il ritorno a un primitivismo arido e chiassoso, chiassoso e monotono. Non si può costruire tutta la sensibilità su una parola; ogni costruzione converge nella perfezione che annoia, idea stagnante di una palude dorata, prodotto umano relativo. L’opera d’arte non deve rappresentare la bellezza che è morta; né gaia né triste, né chiara né oscura, non deve divertire né maltrattare le singole personalità servendogli i pasticcini delle sante aureole o i sudori di una corsa inarcata attraverso le atmosfere. Un’opera d’arte non è mai bella per decreto legge, obiettivamente, all’unanimità. La critica quindi è inutile, non può esistere che soggettivamente, ciascuno la sua, e senza alcun carattere di universalità.

Si crede forse di aver trovato una base psichica comune a tutta l’umanità? L’esperimento di Cristo e la bibbia coprono sotto le loro ali ampie e protettive: la merda, le bestie, i giorni. Come si può far ordine nel caos di questa informe entità infinitamente variabile: l’uomo? La massima “ama il tuo prossimo” è un’ipocrisia. “Conosci te stesso” è un’utopia ma più accettabile perché non esclude la cattiveria. Senza pietà. Ci resta dopo il massacro la speranza di un’umanità purificata. Parlo sempre di me perché non voglio convincere nessuno, non ho il diritto di trascinare gli altri nella mia corrente, non costringo nessuno a seguirmi e ciascuno si fa l’arte che gli pare, se conosce l’euforia che saetta fino agli strati astrali e quella che si addentra nelle miniere fiorite di cadaveri e di fertili spasimi. Stalattiti: cercale dappertutto, nei presepi ingigantiti dal dolore, con gli occhi bianchi come le lepri degli angeli.

Così nacque dadà da un bisogno di indipendenza, di diffidenza nei confronti della comunità. Quelli che dipendono da noi restano liberi. Noi non ci basiamo su nessuna teoria. Ne abbiamo abbastanza delle accademie cubiste e futuriste: laboratorî di idee formali. Forse che l’arte si fa per i soldi o per lisciare il pelo dei nostri cari borghesi? Le rime hanno il suono delle monete e il ritmo segue la linea della pancia vista di profilo. Tutti i gruppi di artisti sono finiti in banca, cavalcando differenti comete. Una porta aperta alla possibilità di crogiolarsi nel caldo dei cuscini e nel cibo.

Noi qui gettiamo l’ancora in una terra grassa. Abbiamo diritto di far proclami perché abbiamo conosciuto i brividi e l’allarme.

Fantasmi ebbri di energia, sprofondiamo il tridente nella carne spensierata. Scroscio siamo di maledizioni sulla tropicale abbondanza delle vegetazioni vertiginose, gomma e pioggia è il nostro sudore, sanguiniamo e bruciamo la sete, il nostro sangue è vigore.

(trad. O. Volta)

 

 


da “Manifesto sull’amore debole e l’amore amaro”, La vie des lettres, n. 4, 1920
(letto il 12 dicembre 1920 alla Galerie Povolozky di Parigi)

 

VII

A priori cioè a occhi chiusi, dada pone prima di tutto l’azione e sopra ogni cosa: il Dubbio.
dada dubita di tutto. dada è tutto. Diffidate di dada.
L’antidadaismo è una malattia: l’autocleptomania, condizione normale dell’uomo, è dada.
Ma i veri dadaisti sono contro dada. […]

VIII

PER FARE UNA POESIA DADAISTA

Prendete un giornale.
Prendete un paio di forbici.
Scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che voi desiderate dare alla vostra poesia.
Ritagliate l’articolo.
Tagliate ancora con cura ogni parola che forma tale articolo e mettete tutte le parole in un sacchetto.
Agitate dolcemente.
Tirate fuori le parole una dopo l'altra, disponendole nell'ordine con cui le estrarrete.
Copiatele coscienziosamente.
La poesia vi rassomiglierà.
Ed eccovi diventato uno scrittore infinitamente originale e fornito di una sensibilità incantevole, benché, s’intende, incompresa dalla gente volgare.