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Traduzione come fotografia di una interpretazione

Scommetto che non vi è mai capitato di osservare il lavoro di latino da questo punto di vista.

Mi spiego:

• tradurre un testo di Catullo (o di Cesare, o di qualunque altro autore antico) vuol dire pretendere di entrare nella testa, nel pensiero di uno che è morto almeno da duemila anni o giù di lì, e di farlo attraverso l’unico indizio che lui ha lasciato, ossia le parole del suo testo (tra l’altro non scritte da lui stesso, ma ricopiate per la mille-e-unesima volta da qualche ignorantissimo monaco di almeno 8-10 secoli dopo... pensa te!)

• ora: già intendere bene, senza equivoci e confusioni più o meno volontarie, uno che ti sta parlando davanti alla faccia non è sempre facilissimo; e comunque il tuo interlocutore, quando è presente, può almeno accorgersi dei tuoi fraintendimenti, e magari correggerti e aiutarti a capire meglio quel che sta dicendo.

• pensa però se il tuo interlocutore è già sotto terra da oltre venti secoli e mezzo! in quel caso, nessuno può difendere il suo vero punto di vista davanti alle tue interpretazioni più o meno abusive; nessuno, tranne... te.

• un bel paradosso, neh? tu sei contemporaneamente quello che fa violenza al suo pensiero (perché in realtà ogni traduzione in fondo è una violenza), e quello che lo difende dalle violenze del tuo stesso pensiero.

• rimedi? io ne conosco uno solo: imparare a essere sempre più consapevoli che il nostro pensiero non è la realtà ma (suprema tautologia!) è il nostro pensiero; ossia, la nostra traduzione di un testo - per dire - di Catullo, non rappresenta ciò che pensa Catullo, ma ciò che noi pensiamo di quel che pensava lui espresso nelle parole delle sue poesie.

• insomma: ammesso che l’unica traduzione giusta di un testo antico è (altro paradosso) il testo originale senza nessuna traduzione, e ammesso altrettanto che per capirlo oggi è inevitabile doverlo tradurre, ogni traduzione non rappresenta tanto il pensiero dell’autore (quel che lui pensava), bensì il nostro pensiero sul suo pensiero (quello che noi pensiamo di quel che lui pensava, anzi di quel che crediamo che pensasse...)

• questo intrico di pensamenti è un gran caos, ma in realtà è anche una gran risorsa: ogni nostra traduzione, in fondo, è una traduzione del pensiero di noi stessi, prima che essere una traduzione del testo di un altro.

• se ci pensate, ciò significa che alla fine ogni traduzione è più un pezzo del traduttore che del tradotto; quindi l’oggetto vero del nostro studio, quando traduciamo, non è tanto l’autore antico e il suo pensiero, quanto piuttosto siamo noi stessi e il nostro pensiero.

• come dire: se vuoi conoscere davvero il tuo pensiero, allora traduci il testo di un altro, e poi esamina la tua traduzione: sottraendo da essa il pensiero dell’altro, ci troverai il tuo pensiero.

Mi direte quel che pensate in proposito.